SIMONEREPETTO.COM
  • Home
  • Chi sono
  • Blog
  • PODCAST
  • EVENTI
  • Collab
  • Contact

L'atollo di Bikini

8/18/2022

0 Comments

 
Foto

Questa è una storia terribile, racconta della crudeltà dell’uomo sull’uomo.
È una di quelle storie notturne che fanno davvero paura, soprattutto perché non arriva il momento in cui ci si risveglia da un incubo, perché non è un incubo, è una storia vera che, per quanto spaventosa, è giusto venga raccontata.
Le isole marshall erano un paradiso terrestre immerso nel blu tropicale dell’oceano pacifico, abitate da popolazioni completamente autosufficienti, questo fino al 1946 quando gli Stati Uniti ottennero queste isole come territorio fiduciario.
Quello che il governo degli Stati Uniti decide di fare in questo paradiso terrestre che ha come colpa quello di essere in una posizione perfetta per tenere la Cina sotto tiro, è un laboratorio per armi nucleari con gli abitanti come cavie. Il primo marzo del 1954 nell’atollo di Bikini viene fatto detonare un dispositivo termonucleare a fusione con combustibile solido con una potenza di circa mille volte superiore alle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Il cielo si colora di rosso, le palme si piegano a 90 gradi, una gigantesca colonna d’acqua si alza attorno ad 87 navi sui cui ponti ci sono animali di ogni specie portati lì per testarne le reazioni, esattamente come gli abitanti delle isole di Rongelap, Rongerik e Utirik che non sono stati evacuati. L’operazione si chiama “Castle Bravo” ed è la più devastante di 66 test nucleari condotti dal 1946 al 1958.
A vederlo ora l’atollo di bikini, è un luogo silenzioso, bellissimo, spaventoso. C’è una corona di sabbia bianca e vegetazione, una piccola striscia di acqua verde e poi un terribile occhio di acqua blu scuro che è il cratere lasciato dalla bomba. In quello che era un paradiso terrestre oggi non è più possibile vivere, è quasi tutto avvelenato, radioattivo.
Le popolazioni, anni dopo, sono state trasferite in altre isole. La percentuale di cancro è vicina al 100%, nascono ancora bambini deformi o con gravi menomazioni.
In quegli anni nasce il costume a due pezzi che suscitò grande scalpore per la sua audacia, tanto da essere definito un costume da bagno “atomico”. Ecco perché si decise di adottare per il costume il nome dell’atollo.
Nell’edificio dal quale si è fatta partire l’operazione “Bravo”, ora, lasciato nell’abbandono come tutto il resto, sopraffatto da sterpaglie e radici, resiste un cartello particolarmente ironico, alla luce dello stupro che si è fatto di questa gente e di queste terre. Recita: “Si prega di lasciare questo posto come lo si è trovato”.

0 Comments

La pecora elettrica

8/17/2022

0 Comments

 
Foto

La pioggia radioattiva sembra non fermarsi sopra San Francisco. Eppure anche oggi Deckard dovrà uscire per fare il suo sporco lavoro.
Saluta sua moglie Iran, depressa, stanca, apatica.
Non è facile continuare a vivere sulla Terra dopo la guerra nucleare. Chi ha potuto se ne è andato in una delle colonie extramondo, chi non ha potuto è rimasto in questa landa desolata.
Mettici anche il fatto che Deckard e Iran non navigano certo nell’oro, testimonianza ne è il fatto che non possono permettersi neppure un animale vero, vivente.
Si devono accontentare di quella pecora elettrica malfunzionante.
Se almeno la cavalla di Barbour, il suo vicino, partorisse…se lui mantenesse la promessa e regalasse loro il puledro.
Ora comunque è tempo di andare a caccia, a caccia di androidi, bestiacce del tipo Nexus 6 fuggite da Marte.
Deckard vola fino alle Rosen industries, a Seattle, deve somministrare il test di riconoscimento a dei replicanti. Qui, per la prima volta, incontra Rachel, è bella Rachel. Ma non supera il test. Ma è così bella. Tenta anche di corromperlo offrendogli un gufo, un gufo vero, che respira. Si pensava fossero tutti estinti i gufi, è una creatura così preziosa. Anche Rachel sembra così preziosa. Difficile non crederle. Per la prima volta Deckard sembra domandarsi: cosa significa davvero essere umani?
Dopo l’abbattimento del primo androide, un agente sovietico, con i soldi della taglia compra per sé e per Iran una pecora vera. Non sarà un gufo ma è una meraviglia. Non può godersela però, deve tornare fuori, la caccia non è finita. Il prossimo nome sulla lista è quello di una cantante lirica: Luba Luft. È una replicante, ma è così affascinante, talentuosa, si ritrova a porsi la stessa domanda: “cosa caratterizza un essere umano?”
Lei chiama la polizia, Deckard viene tradotto in una centrale che non ha mai visto, non conosce nessuno, neppure Garland, un agente che lo accusa di essere a sua volta un replicante.
Quello che salta fuori è che tutta quella centrale è un’impostura, che tutti i poliziotti sono replicanti, che anche Garland lo è ma proprio mentre sta per uccidere Deckard interviene Phil Resch che spara al suo collega.
Lui e Deckard fuggono, tornano a teatro, uccidono Luba e poi restano a guardarsi negli occhi perché non sono più sicuri se sono davvero umani o se hanno ricordi impiantati. Si sottopongono al test che emette la sua sentenza: Phil è un essere umano ma è spietato come un androide, anche Deckard non è un replicante ma nutre una insana compassione per alcuni androidi Nonostante tutto Deckard vuole finire il suo lavoro e vuole che Rachael lo aiuti.
Lei sembra volerlo dissuadere, in fondo è questo che ha sempre fatto, fare sesso con cacciatori di taglie per distrarli dal loro dovere. Racheal è un androide e lo sa benissimo. Nonostante questo Deckard fa sesso con lei, se ne innamora e la risparmia, lasciandola scappare.
La domanda sembra urlare dentro di lui ora, sempre più forte: “cosa significa essere umani?”
A lavoro finito torna a casa, trova sua moglie Iran disperata. Qualcuno ha ucciso la loro capra vivente, l’ha buttata giù dal palazzo senza alcuna pietà. Chi può aver compiuto un’azione tanto spregevole? Rachael, è stata Rachael. Un gesto orribile ma di gelosia, di vendetta, di rabbia. Così umano.
Mentre percorre il deserto dell'Oregon, Deckard sale su per una collina e viene colpito da dei sassi che cadono, proprio come accadde a Mercer, il fondatore del Mercerianesimo, la loro religione, proprio come accadde a Mercer nel suo martirio.
Qui trova un rospo.
Non può credere ai suoi occhi. Un rospo è inestimabile. Torna a casa e lo porge alla moglie con le lacrime agli occhi. Lei lo osserva. È sintetico.
Seppure molto infelice, Deckard, pensa che sia giusto sapere la verità. Tutto sembra gridare tanto da non potersi tappare le orecchie: “Cosa significa dopo tutto essere umani?”
Deckard si sdraia sul suo letto velato da un sottile strato di polvere radioattiva e si addormenta.
Se ti va di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia ambientata in un futuro distopico, CLICCA QUI!

0 Comments

Ana Maria Santi e gli ultimi Zàpara

8/17/2022

0 Comments

 
Foto

Una volta un minga era una festa, oggi per Ana María Santi è un’occasione molto triste.
Lei ha visto il passato e, per una che ha visto il passato, questo presente non può che mettere tristezza. Siamo a Mazáraka, un piccolo villaggio sul Rio Conambo, un affluente del Rio delle Amazzoni.
Lei ha gli occhi grigi, le mani nodose, i capelli nerissimi nonostante i suoi 70 anni che la condannano a ricordare quando le scimmie ragno erano sacre e come le scimmie, anche loro, gli zàpara, vivevano sugli alberi, legando insieme i tronchi delle palme con liane di bejuco per sostenere i tetti di foglie.
Le sue nipoti, con fili d’erba intrecciati fra i capelli, le offrivano una tazza di chicha, un’acida e lattiginosa birra di polpa di manioca fermentata con la saliva delle donne che la masticano per giorni. Lei la rifiutava in una lingua mista fra Quichua e Zàpara, che quasi non si parlava più. Ricordava quando si mangiava soprattutto polpa di palma e tapiri, pecari, colini e craci.
Poi, dall’altra parte del mondo, era successa quella cosa di Henry Ford che scoprì come produrre automobili in serie. All’improvviso serviva un sacco di gomma per copertoni e camere d’aria.
In Ecuador gli indi Quichua delle colline, già evangelizzati dai missionari spagnoli, furono ben contenti di aiutare i nuovi venuti a stanare quei barbari delle pianure, gli Zàpara appunto, incatenarli agli alberi affinché lavorassero fino allo stremo, schiavizzare le loro donne affinché partorissero nuovi schiavi da lavoro.
Quando, negli anni ’20, le piantagioni del sudest asiatico avevano ormai mandato in malora il mercato della gomma sudamericano, si pensava che il popolo degli Zàpara non esistesse più, fosse estinto.
Nel 1999 però, a seguito della risoluzione di una disputa di confine fra Ecuador e Perù, uno sciamano peruviano fu trovato a camminare nella foresta ecuadoriana. Tornava a cercare i parenti. Era uno zàpara. Esistevano ancora.
Fu loro restituita una piccola parte della loro terra ancestrale, L’UNESCO stanziò del denaro per rianimare la loro cultura e salvarne la lingua. La parlavano in quattro, ormai.
Anche loro avevano imparato dagli occupanti ad abbattere alberi millenari per creare appezzamenti di manioca che ora era la loro principale fonte di sostentamento, la consumavano per tutto il giorno, sotto forma di chicha.
Erano sempre ubriachi gli Zàpara sopravvissuti, bambini compresi.
Anche quel giorno di festa, anche durante quella minga, una festa campestre per la costruzione di un granaio.
D’altra parte, se ti risvegli, dopo una quasi estinzione, in un mondo che non è più il tuo, come fai a rimanere in piedi se non ti stordisci un po’? Gli zàpara stanno seduti uno addosso all’altro, piedi nudi e volto dipinto, in cerchio.
Le nipoti di Ana Maria Santi passano servendo piatti di pesce gatto stufato e agli anziani e agli ospiti offrono anche una carne bollita scura come il cioccolato fondente.
Ora che, senza foresta vergine, la selvaggina è sempre più rara, gli zàpara si sono trovati costretti a cacciare le scimmie ragno.
Le ragazze ne offrono un piatto anche ad Ana Maria Santi che le rimprovera con la voce stanca: “Quando ci riduciamo a mangiare i nostri antenati, che cosa ci resta?”
Vuoi LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia? CLICCA QUI!

0 Comments

Gli adoratori del cocco

8/17/2022

0 Comments

 
Foto

Tedesco, vegetariano, scosso da una specie di sturm und drang, con velleità artistiche, persino seducente nel suo entusiasmo, più folle che gioioso, alla ricerca di uno stile di vita sano, di una maggiore vicinanza alla natura, August Engelhardt è disgustato dalla vecchia aristocrazia prussiana, per non parlare della nuova borghesia bottegaia.
Ha in testa una vita diversa, molto diversa.
E quando nel luglio del 1902 riceve una cospicua eredità, coglie la palla al balzo e parte per l’arcipelago di Bismarck, oggi parte della Papua Nuova Guinea, allora dominio del Reich, qui compra per 41.000 marchi, 75 ettari  di terreno a Kabakon, un’isola corallina, i cui 50 ettari restanti sono una riserva naturale in cui vivono 40 melanesiani.
È il solo bianco, insomma. Costruisce una casetta, si denuda e inizia a cibarsi di noci di cocco.
Sì, perché Engelhardt aveva una curiosa convinzione: è persuaso che il cocco sia un frutto divino.
Ora, è vero che il cocco è un frutto straordinario, offre proteine e acqua potabile ma per lui c’è molto di più. Siccome Dio è il sole e il cocco è il frutto che cresce più vicino al sole, cioè a Dio, non può che essere il cibo per eccellenza, forse è Dio stesso. Ragionamento semplice ma, secondo lui, inattaccabile.
Il fatto che, dopo poco tempo, gli si presenti un’ulcera sulla gamba destra, non lo smuove: è certamente colpa di un passato speso a nutrirsi in modo scorretto.
Essere però l’unico coccovorista al mondo non lo rende felice, sente il desiderio di condividere con altri questo stile di vita che, nei momenti di più grande esaltazione, pensa possa renderlo addirittura immortale.
Così, propaganda la sua idea in Germania offrendosi persino di pagare le spese di viaggio per eventuali nuovi adepti.
I risultati non si fanno attendere e una modesta truppa di squilibrati, sognatori, viaggiatori, delusi dalla società materialista guidata dal Kaiser Guglielmo II, arriva sull’atollo.
Alcuni muoiono presto per denutrizione, infezioni o malaria, tanto che le autorità tedesche della Nuova Guinea chiedono ad ogni nuovo arrivato di pagare una salata cauzione prima di ricevere il visto di ingresso. Questi soldi, spiegano, serviranno a pagare le cure ospedaliere di cui avranno sicuramente bisogno.
Fra omicidi, amicizie paranoiche, truffe, cannibalismo, automutilazioni, malattie orrende, la situazione sfugge di mano molto presto tanto che le autorità vietano a chiunque di unirsi alla comunità sancendo la fine effettiva del culto.
Engelhardt rimane così sempre più solo, fatta eccezione per gli indigeni che lo hanno sempre guardato come uno strambo occidentale che non dava granché fastidio e con l’unica sporadica compagnia di alcuni turisti tedeschi che, immancabilmente, gli chiedono una foto. Abbiamo così una documentazione fotografica della sua degenerazione fisica che dura fino al 6 maggio del 1919 quando trovano il suo corpo sulla spiaggia.
L’ultimo dei suoi adepti morirà sei giorni dopo all’ospedale di Okopo.
Si conclude in questo modo la grande epopea del culto degli adoratori del cocco.
Ti va di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia pionieristica? CLICCA QUI!

0 Comments

L'arena erbosa

8/11/2022

0 Comments

 
Foto


Ho sempre avuto una certa fascinazione per quei fiori che crescono in mezzo all’asfalto, nelle crepe dei muri, in mezzo ai rifiuti. Nonostante i tubi di scappamento, nonostante la mancanza di acqua e di luce, nonostante la terra inquinata ce la fanno, magari per poco, ma ce la fanno a sbocciare. Questa è la storia di un uomo che assomiglia a quei fiori, si chiama John Healy. Nasce a Kentish Town, north London, famiglia irlandese, un padre con una bella fila di denti bianchi e un bel sorriso che però con lui non rideva mai. Erano soprattutto botte. E allora la prima cosa che a John viene da fare è il pugile, lo fa nell’esercito e come prima cosa, gli riesce bene. È uno stereotipo d’altra parte, no? Il picchiatore irlandese. Quelle botte che ha preso però hanno lasciato quei segni che non si curano, anche qui sarà uno stereotipo, sarà retorica, ma John inizia a bere e a breve si ritrova per strada con un gruppo di balordi. Per anni non fa altro che camminare per la città cercando qualcuno che gli offra da bere. Di notte si infila negli anfratti dei cantieri, sposta lamiere e ci si infila in mezzo, si protegge dal vento e dalla neve, costantemente intontito, costantemente immerso in una sottocultura dove violenza e soprusi sono la norma. Ne vede cadere tanti. Le risse nascono dal niente, si rompe un pezzo di legno, si afferra un tubo di metallo abbandonato, si rompe una bottiglia e qualcuno muore. Si cerca di non farsi trovare in giro quando arriva la polizia. John fa dentro e fuori dalla prigione. A Petonville, nel 1971, come compagno di cella, gli capita Harry Collins, detto Brighton Fox. Lo chiama “Oliver”, come Oliver Twist. John lo vede concentrato su un gioco di cui non sa nulla, gli scacchi. Harry gliela spiega così: “sulla scacchiera puoi fare tutto quello che fai per strada ma senza finire in galera”. John rimane affascinato, in poco tempo impara. Io non so giocare a scacchi ma so che chi è bravo ne è ossessionato, si stacca dal mondo reale, il suo cervello è in grado di elaborare una serie di casistiche e di patterns che richiedono un’intelligenza non comune. Quando esce inizia a giocare professionalmente, gli scacchi lo assorbono, smette di bere, nell’ambiente si accorgono immediatamente di lui, ha un grande talento, vince 10 tornei internazionali ma, ad un certo punto, realizza che non riuscirà a diventare un maestro. Di solito, i più grandi, iniziano a giocare a 5 anni, lui ha iniziato a 30, non riesce a colmare il gap. Ci mette un anno ad accettarlo, sbanda di nuovo ma questa volta senza deragliare perché, in carcere, era successa un’altra cosa. Aveva disobbedito ad un ordine e un secondino gli aveva dato due calci in bocca e lo aveva sbattuto in isolamento. La cella era piccola e buia, non c’era nessuno, niente da guardare. Quindi lui si sdraia a terra e inizia a respirare lentamente, per calmarsi, poi diventa consapevole del proprio respiro e la cosa lo rasserena come non gli era mai capitato. Fuori dal carcere incontra una donna, è un insegnante di yoga, anche in quello diventerà bravo. Nessun pensiero filosofico o spirituale, dice lui, lo fa solo quando gli serve, ma lo pratica con grande efficacia. Torna da sua madre. Per lei deve essere stato abbastanza scioccante, non aveva sue notizie da 10 anni, probabilmente pensava fosse morto, sta con lei perché non ha un tetto, finirà per assisterla quando lei si ammalerà di Alzheimer. Mentre vive con sua madre, fa il tuttofare per raggranellare qualche soldo e si trova a tagliare l’erba di un giardino di una clinica oncologica dove incontra una paziente, si chiama Jo Spence, è una fotografa che lavorava al british film institute e John le parla di un manoscritto che tiene nel cassetto, ci ha lavorato nel corso degli anni, quando sentiva di dover sputare fuori racconti di quella vita di merda che faceva ai margini della società. Jo Spence pensa sia bellissimo, gira il testo a Colin McCabe che siede nel direttivo della casa editrice Faber&Faber. Nel 1988 il libro esce, si intitola “The grass arena” e riceve critiche straordinarie, vince il prestigiosissimo J.R.Ackerley Award, da quelle righe viene tratto un film che uscirà nel 1991. Purtroppo, poco dopo il lancio, John litiga con i vertici della casa editrice, per soldi pare, la pubblicazione viene interrotta e lui finisce nel dimenticatoio per altri vent’anni, finché il libro non viene ripubblicato dalla penguin classics, niente meno. Oggi John Healy vive a Londra, ha 79 anni, parla poco, si dice che non sia facile comunicare con lui. L’unica cosa che gli interessa, pare, è trovare un po’ di pace mentale, con lo yoga ci riesce, perché trascende. Poi però torna qui e qui, dice, è più difficile.
Se ti affascinano "gli scrittori maledetti", prova a LEGGERE/ASCOLTARE cliccando qui!

0 Comments

Shakespeare è davvero esistito?

8/4/2022

0 Comments

 
Foto

A teatro basta accendere o spegnere una luce, spostare una quinta, ruotare un elemento della scenografia e i personaggi compaiono o spariscono, nascono o muoiono, si esaltano o sprofondano.
E c’è una storia misteriosa che, vera o no, è bello raccontare. La storia secondo cui il più grande drammaturgo di tutti i tempi, William Shakespeare, non sarebbe mai esistito.
Troppo poco spesso si ricorda che prima che il bardo diventasse quello che tutti sappiamo, in Inghilterra il pubblico adorava una star di dimensioni gigantesche: Christopher Marlowe, autore delle passioni maledette, l’insana brama di potere di Tamerlano, la sfrenata sensualità di Edoardo II, la smodata avidità dell’ebreo di Malta o l’infinita sete di conoscenza del dottor Faustus.
Figlio di un calzolaio di Canterbury, Christopher, detto Kyt, è un uomo controverso, dissoluto, sul quale pesavano feroci accuse di militanza nei servizi segreti e di libertinaggio.
In ogni caso, nel 1593 Christopher Marlowe ha 29 anni ed è considerato il più grande artista vivente mentre di William Shakespeare non si sa nulla.
In realtà esiste qualche documento datato 1592 che parla di alcune prime opere del poeta di Stratford-upon-Avon ma le carte di quegli anni sono spesso imprecise, approssimative nella datazione e, anche questo, ha alimentato la leggenda.
Comunque, il 30 maggio del 1593 Marlowe se ne va a Deptford per fare un po’ di bisboccia e prende una stanza in affitto da Eleonor Bull, insieme a tre amici: Ingram Frizer, usuraio e agente di Walsingham, capo dei servizi segreti, Robert Poley, corriere segreto della Regina di ritorno dai Paesi Bassi e Nicholas Skeres, ricettatore e agente segreto a sua volta.
Qui, ad un certo punto, la situazione deve essere sfuggita di mano perché Frizer, dopo essere stato lievemente colpito sulla nuca, accoltella Marlowe in un occhio e Marlowe muore.
Le frettolose indagini, la nebulosa dinamica dell’incidente, la grazia accordata a Frizer poco tempo dopo l’omicidio hanno, fin da subito, alimentato molti dubbi su come le cose fossero davvero andate.
Fatto sta che fra la fine del 1593 e il 1594 a Londra ci fu una terribile epidemia di peste e i teatri chiusero. Quando riaprirono nell’autunno del 1594 l’astro di William Shakespeare esplose:  Romeo e Giulietta,  Sogno di una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia, Molto rumore per nulla, Come vi piace, La dodicesima notte, Le allegre comari di Windsor e così via, un capolavoro dietro l’altro, ad un ritmo galoppante.
A quel punto, a qualcuno, è saltata in testa una domanda torbida ed affascinante:
E se, da vero agente segreto, Christopher Marlowe, che allora navigava in pessime acque e doveva difendersi da accuse di ateismo, blasfemia, sedizione, omosessualità, avesse inscenato la sua stessa morte?
E se, d’accordo con altri tre agenti, suoi sodali, avesse costruito ad arte la rissa che avrebbe messo fine ai suoi giorni?
A quel punto, ormai libero dal suo pesantissimo nome, avrebbe potuto attendere nascosto, aiutato anche dalle quarantene imposte dalla peste, per poi rivelarsi al mondo come la nuova stella del teatro, esplosa all’età di circa 30 anni?
C’è un verso, in “Come vi piace”, commedia pastorale del 1599, che dice testuale: “Morto come un uomo che fa un rendiconto in una piccola camera”.
La storia non sarà vera ma gli elementi per una bella bugia ci sono tutti, che dite?
Vi va di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia del bardo? Ecco un classico! 

0 Comments

Le gemelle Gibbons

8/4/2022

0 Comments

 
Foto

Nodo: Intreccio ottenibile in forme diverse.
Questa è la definizione del termine nodo. Quello che però questa definizione non dice è che, fra le forme diverse, ce ne sono alcune che lasciano stupefatti per la loro forza ostinata, eppure impalpabile.
June e Jennifer Gibbons nascono a Barbados, agli inizi degli anni ’60, sono gemelle e sono due bambine perfettamente normali.
Quando sono ancora molto piccole però, al padre, che è un tecnico aeronautico, viene offerto un lavoro molto importante nella Royal Air Force, così lui decide di trasferirsi con tutta la famiglia in Galles.
Qui le bambine si trovano catapultate in una cittadina estremamente razzista, un ambiente che percepiscono come terribilmente ostile.
Ed è a questo punto che il nodo si stringe e si fa inestricabile.
June e Jennifer iniziano ad isolarsi ogni giorno di più. Quella che, all’inizio poteva sembrare una reazione comprensibile, degenera al punto che le due bambine escludono anche la propria famiglia dalla bolla, inventano una lingua che solo loro possono comprendere, architettano insomma un modo popolato unicamente da loro due.
I genitori tentano varie terapie psicologiche che non danno alcun risultato, provano anche a separarle ma, visti gli stati d’ansia che sfociano in stati catatonici, tornano e riunirle senza che la condizione di isolamento in cui si erano relegate accennasse a cedere.
L’unica breccia sembrò provenire da una vocazione letteraria: June e Jennipher iniziarono a scrivere racconti, piece teatrali, brevi romanzi, anche di una certa qualità secondo alcuni, anche se la loro unica intenzione era quella di regalarli alla loro sorella più piccola.
Ma il nodo non smette di tirare e sembra stritolare cuore e spirito.
Da quel mondo lontano e segreto inizia ad emergere una rabbia incontenibile che si manifesta in furti e soprattutto incendi che le gemelle appiccano con la ferocia della vendetta.
Sembra non esista altra soluzione ormai che rinchiuderle in uno degli ospedali psichiatrici più sicuri di tutto il Regno Unito: Broadmoore.
Qui, sedate da numerosi psicofarmaci, le gemelle continuano a non dare alcun segno di voler uscire dal loro isolamento, fino a che il loro caso non arriva all’orecchio di Marjorie Wallace, una delle migliori penne del Sunday Times.
La signora Wallace desidera parlare con le ragazze, si reca molte volte nel Berkshire e riesce a fare quello che nessuno, fino a quel momento, era riuscito a fare: si fa aprire la porta.
E, una volta dentro, dopo molti mesi di osservazione, scopre un’altra cosa sorprendente. Il rapporto fra June e Jennipher è di grande amore ma anche di odio.
Entrambe sanno di essere prigioniere di loro stesse, sanno che quel nodo fa loro male e, per qualche motivo, pensano che possa essere sciolto solo se una delle due muore.
Nel 1993, senza alcun preavviso, Jennipher svenne e morì poche ore più tardi, in conseguenza di una miocardite acuta.
L’autopsia acclarò che nel suo organismo non c’era traccia di veleno né di qualsiasi altra sostanza che avesse potuto provocare la morte.
Il nodo era sciolto, June era libera.
Dopo pochissimo tempo iniziò a socializzare con le altre persone, oggi vive in Galles, perfettamente integrata.
Vuoi LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia "inquietante"? CLICCA QUI!

0 Comments

Il banchiere fruttivendolo

8/4/2022

0 Comments

 
Foto

Non so allora ma oggi Favale di Malgaro, vicino a Genova, è un comune che conta, più o meno, 450 abitanti. Da lì parte la famiglia Giannini alla volta delle Americhe e nelle Americhe fanno nascere Amadeo Peter, a San Jose, California, è il 1870.
Amadeo è uno che si fa un mazzo così: facchino, poi fruttivendolo, poi socio di quello stesso negozio che vende frutta e alla fine è talmente intraprendente che finisce a lavorare in una piccola banca locale, come amministratore. Il sistema bancario però non gli piace per niente: presta soldi solo ai ricchi affinché ne facciano ancora di più mentre, intorno a lui, siamo nei primi anni del ‘900, un mucchio di immigrati lavorano come muli senza che nessuno pensi di dar loro il minimo aiuto.
Amadeo vede un locale che gli piace, è un saloon, raccatta un bel po’ di soldi in prestito, si licenzia e fonda a 33 anni, la bank of Italy, pensata proprio per quella sfilza di contadini, piccoli artigiani, negozianti che venivano considerati solo dagli usurai.
Lui accorda prestiti anche solo per 25 dollari e come garanzia si assicura solo che i suoi clienti lavorino duro, chiede in giro, niente di più. In meno di un anno raggiunge un milione di dollari di depositi ma nel 1906 il terremoto scuote dalle fondamenta San Francisco e anche l’ex saloon va in frantumi. Si riesce comunque a salvare la cassaforte. È tutto quello che serve, insieme ad un tavolaccio messo in mezzo al via vai del porto e ad un cartello: “Bank of Italy”, prestiti per la ricostruzione.
Grazie a lui il quartiere italiano è il primo ad essere ricostruito, anche grazie a lui nasce l’industria del vino californiano perché finanzia chi voleva piantare vigneti, anche grazie a lui viene girato “Il monello” di Charlie Chaplin, lui finanzia i primi film di Walt Disney, lui dà una mano a Frank Capra, ancora lui rinuncia ad un milione e mezzo di dollari di suo personale guadagno per metterli a disposizione della università della California per un progetto di sviluppo dell’agricoltura e sempre lui finanzia con un tasso prossimo allo zero la costruzione del Golden Gate.
Nel 1930, sfidando tutto l’establishment newyorchese che lo chiama il fruttivendolo italiano, cambia il nome della banca che da “Bank of Italy” diventa “Bank of America”.
Molti di coloro che lo sminuivano colano a picco a seguito della Grande Depressione perché avevano investito in azioni che perdono rapidamente il loro valore, la banca di Amadeo Peter Giannini no, perché ha sempre investito sull’economia reale a tassi molti bassi.
Una volta disse che chi desidera accumulare più di 500.000 dollari andrebbe compatito e curato da un bravo psichiatra, quando muore a 79 anni il suo patrimonio ammonta a 489.000 dollari che lascia interamente alla formazione dei dipendenti e alla ricerca medica.
Ti va di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia "americana"? CLICCA QUI!

0 Comments

Il sillabario di Sequoyah

7/14/2022

0 Comments

 
Foto

Arkansas, primi anni dell’800.
Due inglesi sudati e con la faccia da avvoltoi fissano un foglio di carta. Uno elenca ad alta voce una serie di oggetti che vuole gli vengano riportati, l’altro muove un attrezzo lungo e sottile su un foglio di carta. Poi lo solleva e ripete la stessa lista di oggetti, nello stesso ordine, senza un attimo di esitazione.
Poco lontano, seduto all’ombra di un albero, c’è un pellerossa, si chiama Sequoyah è diverso da come potremmo immaginare un Cherokee, ha un turbante rosso e bianco, pelle scura, rasato, indossa una palandrana azzurra e fuma una lunga pipa ma, ciò che è più importante è che è stupefatto. Come tutti i Cherokee anche Sequoyah era analfabeta ma, in quei segni, si nascondeva il modo per aiutare la memoria a ricordare.
L’indiano era un fabbro ed iniziò ad associare ad ogni suo cliente un disegno attorno al quale linee e cerchi di varie misure gli ricordavano quanto denaro ogni persona gli doveva.
Intorno al 1810 iniziò a pensare che gli sarebbe piaciuto inventare un sistema di segni per mettere su carta la lingua Cherokee. Iniziò con un sistema di pittogrammi ma era complicatissimo, lo abbandonò subito. Poi tentò di associare un disegno ad ogni parola ma, anche qui, quando si rese conto che i segni diventavano centinaia, migliaia, abbandonò l’impresa, i segni non bastavano mai.
Una notte ebbe una folgorazione, forse ascoltando il pianto di un bambino, forse l’abbaiare di un cane, forse lo scroscio della pioggia.
Intuì che ogni parola era composta da un piccolo numeri di suoni che si ripetevano, quelle che oggi noi chiameremmo sillabe, e allora iniziò ad elencarle.
Si fece prestare un sillabario inglese da un maestro di scuola, copiò alcuni segni dell’alfabeto inglese, altri li inventò di sana pianta, fino ad arrivare ad una prima lista di 200 segni ma lavorandoci e lavorandoci ancora, riuscì a ridurre il tutto a 85 segni.
I Cherokee, per la prima volta nella loro storia, avevano una lingua scritta.
Nel giro di pochi anni la impararono tutti, davvero tutti. Si comprarono un torchio da stampa, fusero in piombo i segni di Sequoyah e iniziarono a stampare libri e giornali che parlavano del loro popolo.
Forse potrebbe piacerti LEGGERE/ASCOLTARE anche QUESTA STORIA!

0 Comments

Il bacio di Alfred Eisenstaedt

7/13/2022

0 Comments

 
Foto

Il 6 luglio di quest’anno, ieri per l’esattezza, rispetto all’uscita di questo episodio podcast è stata la giornata mondiale del bacio. Al di là della saturazione delle giornate mondiali, tanto che servirebbe una giornata mondiale per celebrare le giornate mondiali, questa è una bella giornata che mi va di celebrare, perché negli ultimi anni il covid ha gettato un velo di sospetto su questo gesto bellissimo, quindi vi racconto la non edificante storia di uno dei baci più famosi della storia dei baci.
Il 14 agosto 1945 a Times Square c’è un sacco di gente, la guerra è finita, la gioia è incontenibile e Alfred Eisenstaedt, un fotografo 47enne, si aggira per le strade cercando di catturare immagini che raccontassero al mondo quel momento.
Ad un certo punto vede un marinaio che incede a passo svelto, abbracciando persone, con l’euforia tipica di chi ha bevuto qualche bicchiere di troppo. Poi un lampo bianco che fa girare di scatto il fotografo e gli fa premere il dito sul pulsante che fa fare l’occhiolino all’otturatore della sua Leica Illa. Sono le 17 e 51 minuti e lui ha appena scattato una delle foto più iconiche del ‘900.
Un marinaio ed un’infermiera, simboli della vittoria americana, belli ed innamorati, che si baciano per festeggiare la fine della seconda guerra mondiale.
I due si disperdono, c’è confusione, Alfred non fa in tempo, e forse neppure pensa, di chiedere come si chiamino quei due ragazzi che finiranno sulla copertina di Life.
Vista la fortuna della foto, negli anni a seguire, molti si presenteranno alla redazione del giornale dicendo di essere i protagonisti di quello scatto storico, almeno 3 uomini e 2 donne, nel corso degli anni 50, 60 e 70 ebbero il loro momento di celebrità grazie alla bugia raccontata ma la verità, quella vera, la vera verità, e non per forza migliore, venne a galla solo nel 2012.
Lui si chiamava George Mendonça e lei Greta Zimmer Friedman. Lui era in effetti un marinaio, lei invece era un’igienista dentale.
Non si conoscevano neppure, altroché fidanzati o innamorati.
Lui passò, la abbracciò in un impeto di gioia e alcol e la baciò. Lei rimase interdetta e, un attimo dopo, proseguì la sua passeggiata a Times Square.
Non si videro mai più.
Forse, per la giornata mondiale del bacio, possiamo riferirci ad altri baci, nostri o di altri, reali o dipinti da qualche pittore famoso, purché si celebri questo momento speciale nelle vite di tutti noi.
E pure la foto di Alfred Eisenstaedt che rimane uno scatto emozionante.
Vuoi LEGGERE/ASCOLTARE invece una storia "insolitamente" romantica? CLICCA QUI!

0 Comments
<<Previous
Forward>>

    Archivio

    December 2022
    November 2022
    October 2022
    September 2022
    August 2022
    July 2022
    June 2022
    May 2022
    March 2022
    February 2022
    January 2022
    December 2021
    November 2021
    October 2021
    September 2021
    August 2021
    July 2021
    June 2021
    May 2021
    April 2021
    March 2021
    February 2021
    January 2021

    Categorie

    All
    L'arca Di Bidè
    L'arca Di Bidè
    Storie Notturne Per Persone Libere

    RSS Feed

Powered by Create your own unique website with customizable templates.
  • Home
  • Chi sono
  • Blog
  • PODCAST
  • EVENTI
  • Collab
  • Contact