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Farid Rodriguez, il fantasista

6/11/2022

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Oaxaca è un luogo speciale, è la città de los murtos, il posto dove l’aldiqua e l’aldilà si mischiano, dove i lumini, i fiori arancioni e i bellissimi e spettrali trucchi sui volti dei vivi spaventano i bambini e attraggano le anime. Si racconta che nel giorno dei morti, chi ancora gode del ri,cordo dei proprio cari, magari di un piccolo altare dedicato proprio a lui, possa attraversare un ponte che congiunge i due mondi. Forse anche Farid Rodriguez voleva essere ricordato, certamente sapeva come erigere un ponte fra il mondo reale e quello della fantasia. Apre un profilo instagram, mette una foto con la maglia della juve e scrive “Felicissimo per il primo gol con questa maglia”. In pochi giorni passa da 10 a 10.000 followers e il suo feed si popola di foto. Allenamenti con la primavera bianconera, partite, compagni, selfie…insomma, in breve tempo, diventa una star. Nella sua città firma autografi, in Messico viene invitato alle trasmissioni televisive, dove parla del suo sogno, ad un passo, di giocare presto con Cristiano Ronaldo e Dybala, commenta e critica giocatori messicani, si sbilancia in pronostici ed analisi tecnico tattiche. Un giorno, il giornale messicano “El marcador” racconta che dopo aver fatto 10 goal con l’under 23 della juve, si dà per prossimo il suo debutto in prima squadra, ma non in campionato, addirittura in Champions League. Il ragazzo è pronto, anche se ha le spalle strette, come cantava DeGregori. A quel punto però il nostro fantasista, non nel senso del ruolo calcistico, proprio nel senso della fantasia, spara la bomba, dichiara di aver rifiutato il trasferimento al Getafe e al Rayo Vallecano, dove la dirigenza bianconera voleva mandarlo per farsi le ossa, per restare a giocare tutte le sue carte a Torino. Ma qui esagera, calcia troppo alto, finisce in fuorigioco, insomma, scegliete la metafora che preferite: dichiara di aver mosso i primi passi con la casacca del Fuerzas basicas del club lobos e poi con la maglia dei Pumas. Non aveva mai parlato del suo passato, sempre del suo presente. Ora ha parlato dei suoi trascorsi, per di più, dei suoi trascorsi messicani, è facile verificare. Nessuno di questo club centroamericani aveva sentito parlare di lui. Su internet ormai la notizia si diffonde, tanto da arrivare anche in Italia. La Juventus football club smentisce seccamente di aver mai avuto fra i suoi tesserati Farid Rodriguez. È come togliere una carta alla base del castello di carte. Crolla tutto. Bugie passate e più recenti, l’account instagram viene cancellato e la carriera da calciatore svanisce, senza per altro essere mai iniziata.

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June 08th, 2022

6/8/2022

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Douglas Prasher è un giovane scienziato che pensa unicamente a dimostrare la fantastica idea che ha in testa.
E si immerge, non solo nella materia, si immerge letteralmente, fino ai gomiti, in ammassi gelatinosi di carcasse di medusa che ha pescato una ad una con un retino da piscina.
Da quella roba ci estrae grandi quantità di proteine luminescenti, organizza un vasto archivio di DNA di medusa e individua e codifica il gene che stava cercando.
Ci avete capito poco? Anch’io. Vi basti sapere che era un nerd perfettamente consapevole di quello che stava facendo.
Quando però presenta i risultati del suo lavoro al laboratorio di biologia marina in cui lavorava, a Woods Hole, in Massachusetts, la sua richiesta di fondi fu respinta.
La delusione fu così forte che sua figlia di tre anni disse alla mamma che papà non sorrideva più.
Quindi, Douglas Prasher si dimise.
Nonostante questo però, convinto dell’utilità della sua scoperta, in modo del tutto disinteressato, inviò il gene clonato del GFP agli unici due scienziati che avevano dimostrato un minimo di interesse per le sue ricerche: Martin Chalfie e Roger Tsien.
Chalfie lavorò anni su quel gene e dimostrò che Prasher aveva ragione: si poteva usare la GFP negli organismi viventi, si potevano rendere fluorescenti le proteine, evidenziandole, un espediente che oggi è usato quotidianamente da migliaia di biologi.
Tsien invece modificò il gene, creando varie famiglie di GFP che emettono luci di vari colori.
Insomma, i due fecero esattamente quello che Prasher aveva programmato di fare se avesse avuto fondi sufficienti per continuare i suoi studi.
I due scienziati, insieme, pubblicarono una serie di articoli rivoluzionari sulle applicazioni del gene scoperto da Prasher.
17 anni dopo l’invio di quelle due buste, Prasher si stava facendo un caffè nella sua casa di Hauntsville, in Alabama, e sentì alla radio che a Stoccolma due scienziati che conosceva molto bene avevano ricevuto il premio Nobel.
Prasher sollevò il telefono e chiamò la sede della stazione radio. Si premurò unicamente di correggere la pronuncia del cognome di Tsien che lo speaker aveva sbagliato.
Finì il suo caffè, si vestì e andò a lavorare come tutte le mattine in un concessionario di auto e furgoni di cortesia.
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Ade e Persefone, tenebre e luce

6/3/2022

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Di questi giorni mi colpisce il contrasto fra la luce e le tenebre, uno degli scontri più antichi che l’Uomo abbia mai raccontato. 
Da una parte c’è il buio sconfortante della guerra, delle fosse comuni e della morte.
Dall’altra l’estate che inizia, la luce del sole, il vento tiepido e i campi di grano. 
E non è un caso che quando c’è guerra a mancare sia proprio il primo frutto del sole.
Ade era il re dell’oltretomba, sedeva tutto il giorno su un trono ai piedi del quale stava accucciato un cane terribile, Cerbero, con tre teste, gli occhi rossi, il pelo rado e i denti aguzzi. 
Cerbero ringhiava continuamente alle povere anime dei morti che si presentavano sulle sponde del fiume infernale, lo Stige e, se l’avevano, offrivano una moneta d’oro a Caronte affinché li portasse sull’altra sponda. 
Se non avevano monete rimanevano a vagare per sempre come ombre in mezzo alla nebbia. 
Vivere in questo luogo buio e triste aveva reso Ade un re solo e cattivo.
Nessuna donna e neppure nessuna ninfa avrebbe mai accettato di vivere con lui in un posto tanto lugubre.
Così, Ade, uscì in superficie con il preciso intento di rapire una ragazza e farne sua moglie. 
In un bellissimo prato inondato di luce vide la creatura più delicata e armoniosa del mondo, si chiamava Persefone. 
Si trovava lì con sua madre Demetra ed altre ninfe, coglievano fiori e ne facevano ghirlande. 
Ade, con uno stratagemma subdolo, degno degli inferi, fece sbocciare, a poca distanza da lui, un narciso così bello e così profumato che Persefone non poté che avvicinarsi. 
Non appena colse il fiore, Ade la afferrò e la trascinò nel sottosuolo.
Demetra allora andò da Zeus pretendendo che obbligasse suo fratello Ade a restituirle sua figlia ma Zeus le disse che non poteva intercedere.
A quel punto, Demetra, dea dei raccolti e della fertilità, infuriata, disse a Zeus che se Persefone non fosse tornata a vedere la luce, sul mondo intero mai più sarebbe cresciuta una spiga di grano.
E così accadde, per un anno intero i campi non diedero alcun frutto, non ci furono semi, né spighe, né farina.
Il re degli Dei doveva trovare una soluzione ma era difficile convincere Ade che non voleva saperne di restituire sua moglie.
Così, dopo molte insistenze, si giunse ad un compromesso: La ragazza sarebbe potuta tornare per sei mesi l’anno, in primavera ed in estate, mentre l’autunno e l’inverno li avrebbe trascorsi nel buio regno dell’oltretomba.
Ade non poté rifiutare quella mediazione.
Dall’anno successivo, solo quando Persefone era con sua madre e poteva godere della luce del sole, campi, orti e frutteti tornarono a dare i loro frutti.
Da allora, quando l’inverno della guerra e della morte non si mette in mezzo, godiamo del sole che fa maturare il grano, del mulino che macina la farina, del forno che cuoce il pane.  
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L'uccellino azzurro di Bukowski

5/25/2022

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“Ho anche un debole per le donnacce, quelle che si ubriacano e bestemmiano, che hanno le calze molli e il trucco sbavato. Mi interessano di più i pervertiti che i santi. Mi rilasso con gli scoppiati perché anche io sono uno scoppiato.”
Questa è una frase di Charles Bukowsky, lo scrittore maledetto più citato dei social.
A me il vecchio Hank mi ha sempre spezzato il cuore, forse perché anch’io sono uno scoppiato, non lo so.
Mi è sempre sembrato un vecchio cane rognoso che, nonostante avesse preso tante botte, conservava gli occhi dolci.
Mi piace perché era tutto sbagliato, diceva sempre la cosa sbagliata, era sempre fuori posto, sgradevole, aggressivo, quello che hai paura di invitare ad una festa perché potrebbe pisciarti nel vaso della pianta del salotto, davanti a tutti. Cosa che ha fatto, se non ricordo male, in diretta tv.
Ma la storia legata a Bukowsky che mi piace di più è quella del suo uccellino azzurro.
Tutti hanno un uccellino azzurro che canta nel cuore, è quello che ti fa sentire l’entusiasmo delle cose che stanno per succedere, l’estate che inizia, il fremito dopo che una donna ti sorride, la voglia di riabbracciare un vecchio amico. La bellezza della vita insomma.
Ce l’aveva anche Hank e cantava.
Ma poi gli è capitato un padre che, dopo che gli aveva fatto tagliare il prato, controllava che tutti i fili d’erba avessero la stessa altezza e, se non era così, lo prendeva a cinghiate.
Poi, sempre il padre, trovò dei fogli con i suoi racconti in un cassetto, non gli piacquero, e lo cacciò di casa.
Lo odiava perché parlava solo di soldi, lo odiava perché gli dava sempre ordini.
Il suo uccellino azzurro ha iniziato a nascondersi dentro, in fondo, perché aveva paura del mondo e della vita.
Per 50 anni Bukowsky fu un senzatetto, lavorava lo stretto necessario per comprare le sue lattine di birra e poco altro. Passava le notti a battere a macchina, scrivere e vomitare abbracciato al cesso.
Cicatrici dentro e cicatrici fuori, lo rendevano brutto, nei bar glielo urlavano, si buttava dentro risse improbabili, ne usciva ammaccato e stordito, qualche volta elemosinava un po’ d’amore da qualche puttana vecchia e stanca, spesso andava in bianco, qualche volta lo facevano toccare per pietà.
Il suo uccellino azzurro cantava sempre meno e si nascondeva sempre più a fondo, in certi posti scuri e umidi dell’anima che neppure sappiamo di avere.
Era così radicale nel giudicare la società intorno a lui che non poteva che finire ai margini, isolato, spesso deriso, un relitto, un avanzo, solo un’altra figura triste accartocciata sul marciapiede di una periferia americana.
Sputava sul lavoro che, mentre arricchisci qualcun altro, ti abbruttisce; sputava sui perbenisti dalle vite scontate, piatte e vuote; sputava sulla stupidità della guerra, sputava sulle convenzioni, sulle etichette, sulla retorica, sul patriottismo, sulle religioni, sullo Stato, sugli occhi spenti delle signore per bene.
Il suo uccellino azzurro ormai era muto, lontanissimo, anestetizzato eppure tremante.
Poi, nel 1969, quando ha 49 anni, arriva un signore che si chiama John Martin, ha una piccola casa editrice, “La black sparrow”, gli offre 100 dollari al mese per tutta la vita, per scrivere.
Non gli sembra vero.
Ha così paura che sia una bugia che in un mese scrive “Post Office”, il romanzo che lo renderà famoso.
Un minuscolo raggio di sole filtra, anche se 50 anni di dolore non c’è più il tempo di curarli, ma un flebile raggio di sole arriva fino alle remote regioni dove l’uccellino azzurro sta agonizzando.
E lui lo sa, gliel’ha scritto. Ed è questo che spezza il cuore.
 
Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire,
ma con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani dentro, non voglio che
nessuno ti veda.
Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma gli verso addosso whisky e aspiro
il fumo delle sigarette
e le puttane e i baristi
e i commessi del droghiere
non sanno che lì dentro c'è lui.
Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani giù, mi vuoi fare
andar fuori di testa?
vuoi mandare all'aria tutto il mio lavoro?
vuoi far saltare le vendite dei miei libri in Europa?
Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
Gli dico: lo so che ci sei,
non essere triste
poi lo rimetto a posto,
ma lui lì dentro un pochino canta,
mica l'ho fatto davvero morire,
dormiamo insieme così
col nostro patto segreto
ed è così grazioso da far piangere
un uomo, ma io non piango,
e voi?
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L'estate del '92

5/19/2022

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Nell’estate del 1992 ero poco più di un bambino e l’estate era la stagione bellissima delle giornate a giocare a pallone, del mare, delle notti miti, dell’odore intenso dei campi, dei fossi, dei fiori.
Da bambino vedi solo la parte luminosa, non sai che dove il sole batte fortissimo, ci sono anche ombre scurissime, nere come gli incubi.
C’era una guerra e io non lo sapevo. Ma neanche tutti i grandi, gli adulti, forse lo sapevano.
È una storia difficile da raccontare quella di oggi, non solo perché è triste, non solo perché è nostra, di tutti noi, ma pure perché per raccontare bene una storia dovresti conoscerla dettagliatamente. Ed invece in questa, a 30 anni di distanza, mancano ancora nomi certi, spiegazioni, risposte e pure un’agenda rossa, piena di appunti, pare, della storia sotterranea del nostro Paese, quella da non dire.
Il 23 maggio del 1992 il giudice Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, saltarono in aria con 500 chili di tritolo all’altezza dell’uscita autostradale di Capaci.
Non ho un ricordo limpido. Ricordo solo un gran silenzio dopo la notizia al telegiornale.
Non era il primo magistrato che la mafia uccise. Andando a ritroso in una macabra conta si arriva almeno al 1971, Pietro Scaglione, che aveva messo il naso in mezzo alle storie ingarbugliate di Salvatore Giuliano e dei corleonesi che stavano iniziando a crescere. E continueranno a crescere. Quando nel ’92 Giovanni Brusca preme il pulsante del detonatore sono potenti come lo Stato, dentro lo Stato.
Eppure quando si sente quel botto, all’improvviso non si può più negare che la mafia c’è, fa rumore, fa paura e uccide.
57 giorni dopo, solo 57 giorni dopo, il 19 luglio Paolo Borsellino fa visita a sua madre che vive in un palazzo di via D’Amelio, a Palermo.
Questa volta i chili sono 90, Semtex-H, messi dentro ad una FIAT 126, parcheggiata poco distante.
L’esplosivo è arrivato in città qualche giorno prima, Borsellino non era stato informato, lo seppe per caso, sapeva che a Palermo era arrivato il tritolo destinato a lui.
Oltre al giudice Borsellino moriranno Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo LiMuli, Walter Eddie Cosima e Claudio Traina.
Di quel giorno di luglio invece ho ricordi nitidi. Eravamo appena tornati dalle vacanze e si fece di nuovo silenzio e ricordo un’inspiegabile sensazione. Come se, non solo fossero finite le vacanze ma, nonostante fossimo a luglio, fosse finita pure l’estate, pure il sole, pure le partite a pallone, pure l’odore dei campi e degli alberi.
Appartenevo ancora a quella che Borsellino, nel suo ultimo discorso, definì “le giovani generazioni”, e, secondo lui, ero più adatto degli adulti a sentire “la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità.”
In quel momento, anche se probabilmente non sarei stato in grado di descriverlo, la differenza fra puzza e profumo, mi pareva evidente.
Nell’auto di Paolo Borsellino rimase una borsa che conteneva un’agenda rossa.
A 30 anni di distanza non sappiamo chi l’abbia presa e quali appunti contenesse.
E a 30 anni di distanza, anche se non appartengo più ad una giovane generazione, mi chiedo a che punto stia la limpidezza dell’aria e mi trovo a costretto a pensare che, se il vento di libertà si genera dalla verità, siamo ancora immersi in un’aria inquinata.
Penso pure però ad un’altra frase, di Falcone questa volta, che mi piace ricordare: “La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni".
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Mata Hari

5/14/2022

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Se inventarsi la vita è un’arte, una delle più grandi artiste di tutti i tempi è stata Margaretha Geertruida Zelle.
La prima magia la fanno i suoi occhi e la sua pelle, così scuri che in olanda sembrano venire da un altro pianeta. Ha uno strano magnetismo con gli uomini eppure, la prima volta, si sposa per corrispondenza, con un ufficiale in convalescenza dalle colonie d’indonesia: il capitano Rudolph Mac Leod.
Con lui riparte proprio per Giava e ha un figlio prima, Norman, e una figlia poi, Louise.
La seconda magia, in terra di magia, avviene a Medan, costa orientale di Sumatra. Qui assiste, all’interno di un tempio, ad una danza locale e ne rimane rapita.
Ma è ancora presto perché l’incanto si manifesti, ci saranno giorni di dolore in mezzo, come la misteriosa perdita del figlio, forse avvelenato da una domestica.
Tornati in Europa, il matrimonio scricchiola fino a cedere, Louise è affidata al padre, Margaretha va a Parigi, fa la modella, si propone ai teatri ma le cose non vanno molto bene fino a quando non conosce il signor Molier, che ha un’importante scuola di equitazione e circo e lei a Giava ha imparato a cavalcare, un’amazzone è merce rara.
Una sera poi, a casa del signor Molier, si esibisce casualmente in una danza giavanese, o qualcosa di simile, e una scintilla si accende. Presto diventerà un incendio.
Secondo il signor Molier, quella danza era quella delle sacerdotesse del dio Shiva.
Da lì inizia ad esibirsi nelle case delle persone più ricche e in vista della città, in poco tempo la vogliono anche al Theatre Marigny, al Trocadéro, al Café des Nations ma è quando si esibisce a place de Jena che monsieur Guimet le suggerisce di cambiare nome, il suo è troppo borghese.
Così, il 13/3/1905 nasce una stella che si chiama “Occhio dell’alba”, “Sole”, in malese, cioè nasce Mata Hari.
E qui, lei capisce, che lo spettacolo va fatto sempre, non solo sul palco e inizia ad inventare e ad inventarsi.
“Sono nata a Giava e vi ho vissuto per anni» - racconta ai giornalisti, «sono entrata, a rischio della vita, nei templi segreti dell'India, ho assistito alle esibizioni delle danzatrici sacre davanti ai simulacri più esclusivi di Shiva, Viṣṇu e della dea Kālī, persino i sacerdoti fanatici che sorvegliano l'ara d'oro, sacra al più terribile degli dei, mi hanno creduto una bajadera del tempio, la vendetta dei sacerdoti buddisti per chi profana i riti è terribile, conosco bene il Gange, Benares, ho sangue indù nelle vene.”
Tutto falso ma intanto il mito esplode.
Danza all’Olympia, tournèe in Spagna, Operà di Monaco, Giacomo Puccini è un suo ammiratore, escono due sue biografie, una che la esalta, del padre che a sua volta si inventa cose per nobilitarsi, una denigratoria, dell’avvocato del marito.
Lei ovviamente avvalla la prima che la racconta discendente di principi, frequentatrice di Marajà, guerriera che ha abbattuto tigri a mani nude, come la pelliccia che indossa dimostrerebbe.
In realtà l’ha comprata ad Alessandria d’Egitto.
Il teatro alla Scala di Milano, Montecarlo, e anche Roma, Napoli e Palermo ma qui ballando il flamenco, perché viene fuori che ha sangue anche gitano anzi, avrebbe viaggiato a lungo in Spagna, dove un torero, innamorato di lei, si era fatto uccidere nell'arena, disperato per non essere corrisposto. Ecco perché conosce così bene le danze spagnole.
Mille bugie, come mille erano i veli traslucidi che si toglieva nella sua danza fino a rimanere quasi nuda con i seni coperti da due coppette di bronzo che, si dice, dovessero coprire piccoli seni che la imbarazzavano. Ma chissà se anche questo è vero o no.
Nulla sembra poterla fermare…fino a quando uno studente serbo non decide di sparare al principe Francesco Ferdinando e la prima guerra mondiale mette fine alla belle epoque.
Ma una donna così non ha problemi a reinventarsi.
Mentre l’esercito tedesco invade il Belgio per la sua famosa “operazione a tenaglia”, MataHari parte, dopo molte vicissitudini, torna in Olanda e qui viene contattata dal console tedesco Alfred von Kremer che le propone di fornire informazioni al governo tedesco sull'aeroporto di Contrexéville, presso Vittel, in Francia, dove MataHari poteva recarsi per far visita ad un suo ennesimo amante, il capitano russo Vadim Masslov.
Mata Hari, diventa un agente segreto dello Stato tedesco, istruita in Germania da Fräulein Doktor, agente H21, codice AF44.
Ma qui forse esagera, per avidità o spirito di avventura…inizia a fare la spia anche per il governo francese. Accetta la proposta del capitano Georges Ladoux, controspionaggio, per una cifra spropositata, si dice un milione di franchi. Mata Hari sta facendo ufficialmente il doppio gioco.
la mattina del 13 febbraio 1917 fu arrestata e rinchiusa nel carcere di Saint-Lazare.
Il processo fu una sfilata di soldati, vecchi amanti, trafficoni, teatranti, agenti segreti.
Il 15 ottobre 1917, il capitano Thibaud la informò che la domanda di grazia era stata respinta. Lei si vestì con la consueta eleganza, cappello in paglia di Firenze con veletta, un mantello, guanti. Scrisse ancora tre lettere che la direzione del carcere non spedì mai: una a sua figlia Louise, una al capitano Masslov, una all’ambasciatore olandese Cambon.
Fu scortata al castello di Vincennes in un freddo mattino di parigi con la nebbia che si alzava dalla Senna, fu salutata dal plotone, ricambiò con un lieve gesto del capo, rifiutò la benda.
Dei 12 colpi solo 4 la colpirono: uno alla coscia, uno al ginocchio, uno le sfiorò la parte sinistra del corpo, uno le trafisse il cuore.
Il maresciallo Pétey diede alla nuca un colpo di grazia che non serviva più.
Il corpo di una delle più grandi dive del ‘900 fu gettato in una fossa comune.
La prima guerra mondiale fu anche QUESTO. Leggilo o ascoltalo QUI! 

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Il bastone dei miracoli

5/6/2022

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Sei dei dodici figli di Licurgo Caminera stanno tornando a casa, come Ulisse ad Itaca.
E non è un paragone casuale. Il vecchio contadino anarchico ha sempre avuto una passione arroventata per la letteratura classica e ha chiamato i suoi figli con i nomi dei grandi eroi del passato: Achille, Ercole, Penelope, Antigone, Elena.
Qualcuno se lo sono portati via i venti maledetti della vita, le febbri infantili o le infezioni dell’anima ma quelli che sono rimasti, ora, come i vecchi patriarchi, li vuole tutti attorno a sé perché, proprio come i vecchi patriarchi, c’è un ultimo dono da regalare loro, il più prezioso. Non oro, greggi o poderi ma le parole di una saggezza ancestrale e il filo per tenere insieme il loro sangue. Licurgo consegna loro sei buste, all’interno delle quali c’è una parte di un racconto che, per anni, ha scritto per loro e anche un po’ per sé. Ma dovranno leggerlo insieme, gli uni agli altri, questo è il modo per trasmettere la conoscenza, attraverso le parole comuni e il contatto dei corpi, questo è il modo per rimescolare il sangue, questo è il modo che il vecchio ha scelto, l’unico che è disposto ad accettare, per essere ricordato e commemorato.
Ora che tutto è stato detto e dato, può chiudere gli occhi. I figli scopriranno, con gli occhi incantanti dei bambini di fronte alle favole, della storia del bastone dei miracoli, che conserva il potere di donare una buona morte ma anche ricchezze e potere. Per colpa di queste sue ultime capacità è stato anche causa di grande dolore e infinita miseria, specie quando si è intrecciato al malsano desiderio di possederlo di Paolo Anzones, noto Muscadellu.
Nel legno si sono come intagliati migliaia di segreti che i fratelli ascoltano dalle voci dei fratelli davanti al fuoco che scoppietta, cucendo insieme storie antichissime insieme all’ordito della più moderna storia della loro famiglia.
Ora, fra i segreti del bastone dei miracoli, c’è anche la loro storia, quella di un contadino anarchico e dei suoi figli con nomi di eroi.
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Delitto e castigo

5/6/2022

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Fa un caldo insopportabile a Pietroburgo, insopportabile come l’occhio avido della vecchia. Ingorda, avida e meschina. Se solo avessi i suoi soldi farei del bene, il suo sangue sarebbe versato per una buona ragione. Saprei gestirla, sono un superuomo, così mi sento, come Napoleone. Pensate forse che se Newton o Keplero, per illuminare l’umanità, avessero dovuto uccidere un uomo, o un centinaio di uomini, non ne sarebbe valsa la pena?
Questi pensieri affollano la mente di Rodion Romanovič Raskol’nikov, un attimo prima di agire.
Trova il coraggio e uccide la vecchia usuraia. In mezzo ci finisce anche la sorella, donna mite, ma d’altro canto, è un prezzo insignificante per il bene che si è ripromesso di fare. Solo che, poco dopo, una febbre cerebrale lo costringe a letto e qui, un tarlo inizia a scavargli nel cervello. Angoscia, rimorsi, pentimenti, tormenti intellettuali e soprattutto una desolante, inarginabile, sconfinata solitudine in cui il segreto del delitto lo aveva costretto. E se lo scoprissero ora? I suoi nervi, già compromessi, si deteriorano ogni minuto che passa. Il delitto era stato compiuto ma il castigo non era la galera, era lui stesso, affatto superuomo. In questo stato incontro Sonja, dagli occhi belli e il cuore puro, custode di una fede solida e profonda. Nonostante sia costretta a prostituirsi per mantenere la matrigna tisica e i fratellastri, Sonja è capace di donare una luce di speranza a chiunque la conosca, una luce che spazza via il nichilismo di Raskol’nikov. Si costituisce, viene mandato probabilmente a Omsk, sulle sponde del fiume Irtys, in un campo di lavoro, siberia occidentale. Sonja lo segue.
Il vero castigo di Raskòl'nikov non è il campo di lavoro a cui è condannato però, ma il tormento che, una volta penetrato dentro di lui, non lo abbandona mai, lo tormenta e lo lacera.
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L'albero

5/6/2022

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Questa è una storia che si intreccia ad un’altra che ho già raccontato.
Appartiene alla mia terra e ad un particolare fazzoletto di terra, di quelli che hanno poteri magici, perché, checché se ne dica, ci sono angoli del mondo che conservano, trattengono, trasmettono qualcosa. Prati diversi da altri prati, pietre diverse da altre pietre, orizzonti diversi da tutti quelli che puoi guardare.
Uno di questi si chiama “Benedicta”. È un posto bellissimo, in mezzo all’appennino, fra la Liguria e il Piemonte, se alzi gli occhi puoi vedere volare i falchi, è un posto dove arriva il vento di mare, un luogo che mischia la dolcezza dell’erba al colore aspro delle rocce e che sembra illuminato da una luce particolare. Sarà che rimbalza su una terra rossastra che, come ha scritto qualcuno che aveva voglia di poesia, è ancora intrisa del sangue giovanissimo di molti ragazzi che nella primavera del 1944 si erano dati alla macchia proprio in quei boschi aggregandosi a due brigate partigiane.
Ci furono degli scontri la sera del venerdì Santo, alcuni dei più inesperti si nascosero dentro un santuario che fu minato e fatto saltare in aria con loro dentro. In seguito i tedeschi rastrellarono 75 ragazzi che furono privati dei loro documenti, fucilati a gruppi di 5, e gettati in una fossa comune. Questa è la storia che ho già raccontato non accennando al fatto però, che questo posto magico è riuscito a prendere un inferno e a cavarne un sorprendente silenzio, una pace luminosa, un sacrario composto da poche pietre, bassorilievi discreti, l’elenco dei nomi, un bosco che restituisce una serenità che non so spiegare, che ti fa pensare a questa strana cosa che ci siamo abituati a chiamare vita e a ben pensarci è una matassa di gioia e morte, pace e dolore. E non sai mai dove comincia una cosa e finisce l’altra, cosa genera cosa, come tutto questo groviglio è collegato.
La storia nuova invece, che si intreccia con questa, è quella di un mio amico che, di tanto in tanto, viene da queste parti. Si siede poco più in là del sacrario, davanti ad un albero e guarda un prato diverso da altri prati, pietre diverse da altre pietre e soprattutto un orizzonte che gli alleggerisce un po’ il cuore. A lui è capitato di perdere un figlio molto giovane e dice che al cimitero non ci va. Gli fa tristezza forse o non ci trova la pace che cerca, magari non c’è abbastanza luce o non tira il vento che dovrebbe tirare. Ha preferito quindi piantare un albero qui. Un albero che porta il nome di suo figlio e cresce, i boccioli sbocciano ogni primavera, le foglie cadono ad ogni autunno, suonano verdissime quando in estate soffia lo scirocco e i rami sorreggono la neve in inverno. E qui riesce a sedersi e, forse, come me, sente un piccolo soffio di serenità che non sa spiegare. Forse anche lui pensa a questa strana cosa che ci siamo abituati a chiamare vita e che, se ti ci soffermi, è una matassa dolorosa che però, in un modo che non si capisce, se traffichi per sbrogliarla, è capace di legare pace, dolore, gioia e malinconia nello stesso nodo.
​E non capisci mai dove comincia una cosa e dove ne finisce un’altra, quali fili intrecciati ci siano, come questo garbuglio è collegato. Io non lo so e probabilmente neanche lui ma quando si siede all’ombra di quell’albero magari ci pensa, se lo domanda, e siccome questo posto è un po’ magico perché ha saputo conservare, trattenere, assorbire la storia grande, quella con la S maiuscola, magari è capace anche di conservare, trattenere, assorbire la storia più minuta, quella che non si scrive sui libri, quella di ognuno di noi e siccome questo posto un po’ magico sa pure rilasciare, trasmettere, far evaporare, allora può darsi che, stando attenti, qualche risposta si possa anche intuire.
QUI trovi l'altra storia alla quale faccio riferimento!

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La fattoria degli animali

5/6/2022

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Nel cuore della verdissima Inghilterra c’è Willingdon e poco fuori dalla cittadina c’è la fattoria di Mr. Jones. Qui accade qualcosa di straordinario, mai visto prima. Gli animali, stanchi di essere sfruttati, guidati da Palla di Neve e da Napoleone, si ribellano e la rivolta ha un tale successo che il fattore viene cacciato e la fattoria viene gestita autonomamente dalle sue bestie, ora non è più la fattoria di mr. Jones, ma la fattoria degli animali. Si stendono sette comandamenti il più importante dei quali è: “tutti gli animali sono uguali”. Palla di neve insegna a tutte le bestie a leggere e a scrivere, Napoleone educa i cani ai principi dell’animalismo. Sono loro due ora, due maiali, a guidare la fattoria.
Ma il signor Jones non si è arreso e torna in armi, con altri signorotti, ma gli animali oppongono una fiera resistenza e vincono ancora seppur a costo di gravi perdite. Palla di neve vuole modernizzare la fattoria ed espone il suo progetto: la costruzione di un mulino a vento ma Napoleone non è affatto d’accordo e fa assalire il suo compagno dai cani, si dichiara comandante supremo e cambia regime, abolisce il comitato e pone i maiali a capo di tutto. inoltre, facendosi aiutare dal suo amico Clarinetto, diffonde una falsa notizia, secondo la quale Palla di neve stava tramando per rimettere sul trono il fattore Jones.
Cambia l’inno e fa comporre un canto autocelebrativo che tutti dovranno imparare e se qualcuno dichiara di aver aiutato o di essere stato amico di Palla di Neve lo fa sbranare dai cani. Napoleone inizia a fare politica estera, tratta con un fattore vicino, Frederick, ne segue un’altra guerra, la demolizione del mulino, morti e feriti, fra i quali il cavallo Gondrano, venduto da Napoleone al macellaio in cambio di una partita di whisky. Passano gli anni, il signor Jones invecchia e muore e la condizione alla fattoria, invece di migliorare, sembra tornata a quella dei suoi tempi. Non ci sono più 7 comandamenti, ne è rimasto solo uno: "Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri" e anche la vecchia massima "Quattro gambe buono, due gambe cattivo" è stata sostituita gradualmente da "Quattro gambe buono, due gambe meglio" perché i maiali hanno iniziato a camminare su due zampe, ad indossare abiti sgargianti, a dormire su letti enormi e morbidi e a sbronzarsi di whisky quasi tutte le notti. Una sera, attorno ad una finestra illuminata della fattoria sono radunati tutti gli animali che sembrano sbirciare all’interno.
Quello che vedono è Napoleone che gioca a poker con alcuni fattori locali, stanno festeggiando, hanno appena sancito un’alleanza.
Poi Napoleone cala un asso di spade e lo stesso fa anche un tale Pilkington. Iniziano a litigare. Le bestie si guardano confuse, non riescono più a distinguere chi è il maiale e chi è l’uomo.
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