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Mata Hari

5/14/2022

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Se inventarsi la vita è un’arte, una delle più grandi artiste di tutti i tempi è stata Margaretha Geertruida Zelle.
La prima magia la fanno i suoi occhi e la sua pelle, così scuri che in olanda sembrano venire da un altro pianeta. Ha uno strano magnetismo con gli uomini eppure, la prima volta, si sposa per corrispondenza, con un ufficiale in convalescenza dalle colonie d’indonesia: il capitano Rudolph Mac Leod.
Con lui riparte proprio per Giava e ha un figlio prima, Norman, e una figlia poi, Louise.
La seconda magia, in terra di magia, avviene a Medan, costa orientale di Sumatra. Qui assiste, all’interno di un tempio, ad una danza locale e ne rimane rapita.
Ma è ancora presto perché l’incanto si manifesti, ci saranno giorni di dolore in mezzo, come la misteriosa perdita del figlio, forse avvelenato da una domestica.
Tornati in Europa, il matrimonio scricchiola fino a cedere, Louise è affidata al padre, Margaretha va a Parigi, fa la modella, si propone ai teatri ma le cose non vanno molto bene fino a quando non conosce il signor Molier, che ha un’importante scuola di equitazione e circo e lei a Giava ha imparato a cavalcare, un’amazzone è merce rara.
Una sera poi, a casa del signor Molier, si esibisce casualmente in una danza giavanese, o qualcosa di simile, e una scintilla si accende. Presto diventerà un incendio.
Secondo il signor Molier, quella danza era quella delle sacerdotesse del dio Shiva.
Da lì inizia ad esibirsi nelle case delle persone più ricche e in vista della città, in poco tempo la vogliono anche al Theatre Marigny, al Trocadéro, al Café des Nations ma è quando si esibisce a place de Jena che monsieur Guimet le suggerisce di cambiare nome, il suo è troppo borghese.
Così, il 13/3/1905 nasce una stella che si chiama “Occhio dell’alba”, “Sole”, in malese, cioè nasce Mata Hari.
E qui, lei capisce, che lo spettacolo va fatto sempre, non solo sul palco e inizia ad inventare e ad inventarsi.
“Sono nata a Giava e vi ho vissuto per anni» - racconta ai giornalisti, «sono entrata, a rischio della vita, nei templi segreti dell'India, ho assistito alle esibizioni delle danzatrici sacre davanti ai simulacri più esclusivi di Shiva, Viṣṇu e della dea Kālī, persino i sacerdoti fanatici che sorvegliano l'ara d'oro, sacra al più terribile degli dei, mi hanno creduto una bajadera del tempio, la vendetta dei sacerdoti buddisti per chi profana i riti è terribile, conosco bene il Gange, Benares, ho sangue indù nelle vene.”
Tutto falso ma intanto il mito esplode.
Danza all’Olympia, tournèe in Spagna, Operà di Monaco, Giacomo Puccini è un suo ammiratore, escono due sue biografie, una che la esalta, del padre che a sua volta si inventa cose per nobilitarsi, una denigratoria, dell’avvocato del marito.
Lei ovviamente avvalla la prima che la racconta discendente di principi, frequentatrice di Marajà, guerriera che ha abbattuto tigri a mani nude, come la pelliccia che indossa dimostrerebbe.
In realtà l’ha comprata ad Alessandria d’Egitto.
Il teatro alla Scala di Milano, Montecarlo, e anche Roma, Napoli e Palermo ma qui ballando il flamenco, perché viene fuori che ha sangue anche gitano anzi, avrebbe viaggiato a lungo in Spagna, dove un torero, innamorato di lei, si era fatto uccidere nell'arena, disperato per non essere corrisposto. Ecco perché conosce così bene le danze spagnole.
Mille bugie, come mille erano i veli traslucidi che si toglieva nella sua danza fino a rimanere quasi nuda con i seni coperti da due coppette di bronzo che, si dice, dovessero coprire piccoli seni che la imbarazzavano. Ma chissà se anche questo è vero o no.
Nulla sembra poterla fermare…fino a quando uno studente serbo non decide di sparare al principe Francesco Ferdinando e la prima guerra mondiale mette fine alla belle epoque.
Ma una donna così non ha problemi a reinventarsi.
Mentre l’esercito tedesco invade il Belgio per la sua famosa “operazione a tenaglia”, MataHari parte, dopo molte vicissitudini, torna in Olanda e qui viene contattata dal console tedesco Alfred von Kremer che le propone di fornire informazioni al governo tedesco sull'aeroporto di Contrexéville, presso Vittel, in Francia, dove MataHari poteva recarsi per far visita ad un suo ennesimo amante, il capitano russo Vadim Masslov.
Mata Hari, diventa un agente segreto dello Stato tedesco, istruita in Germania da Fräulein Doktor, agente H21, codice AF44.
Ma qui forse esagera, per avidità o spirito di avventura…inizia a fare la spia anche per il governo francese. Accetta la proposta del capitano Georges Ladoux, controspionaggio, per una cifra spropositata, si dice un milione di franchi. Mata Hari sta facendo ufficialmente il doppio gioco.
la mattina del 13 febbraio 1917 fu arrestata e rinchiusa nel carcere di Saint-Lazare.
Il processo fu una sfilata di soldati, vecchi amanti, trafficoni, teatranti, agenti segreti.
Il 15 ottobre 1917, il capitano Thibaud la informò che la domanda di grazia era stata respinta. Lei si vestì con la consueta eleganza, cappello in paglia di Firenze con veletta, un mantello, guanti. Scrisse ancora tre lettere che la direzione del carcere non spedì mai: una a sua figlia Louise, una al capitano Masslov, una all’ambasciatore olandese Cambon.
Fu scortata al castello di Vincennes in un freddo mattino di parigi con la nebbia che si alzava dalla Senna, fu salutata dal plotone, ricambiò con un lieve gesto del capo, rifiutò la benda.
Dei 12 colpi solo 4 la colpirono: uno alla coscia, uno al ginocchio, uno le sfiorò la parte sinistra del corpo, uno le trafisse il cuore.
Il maresciallo Pétey diede alla nuca un colpo di grazia che non serviva più.
Il corpo di una delle più grandi dive del ‘900 fu gettato in una fossa comune.
La prima guerra mondiale fu anche QUESTO. Leggilo o ascoltalo QUI! 

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Il bastone dei miracoli

5/6/2022

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Sei dei dodici figli di Licurgo Caminera stanno tornando a casa, come Ulisse ad Itaca.
E non è un paragone casuale. Il vecchio contadino anarchico ha sempre avuto una passione arroventata per la letteratura classica e ha chiamato i suoi figli con i nomi dei grandi eroi del passato: Achille, Ercole, Penelope, Antigone, Elena.
Qualcuno se lo sono portati via i venti maledetti della vita, le febbri infantili o le infezioni dell’anima ma quelli che sono rimasti, ora, come i vecchi patriarchi, li vuole tutti attorno a sé perché, proprio come i vecchi patriarchi, c’è un ultimo dono da regalare loro, il più prezioso. Non oro, greggi o poderi ma le parole di una saggezza ancestrale e il filo per tenere insieme il loro sangue. Licurgo consegna loro sei buste, all’interno delle quali c’è una parte di un racconto che, per anni, ha scritto per loro e anche un po’ per sé. Ma dovranno leggerlo insieme, gli uni agli altri, questo è il modo per trasmettere la conoscenza, attraverso le parole comuni e il contatto dei corpi, questo è il modo per rimescolare il sangue, questo è il modo che il vecchio ha scelto, l’unico che è disposto ad accettare, per essere ricordato e commemorato.
Ora che tutto è stato detto e dato, può chiudere gli occhi. I figli scopriranno, con gli occhi incantanti dei bambini di fronte alle favole, della storia del bastone dei miracoli, che conserva il potere di donare una buona morte ma anche ricchezze e potere. Per colpa di queste sue ultime capacità è stato anche causa di grande dolore e infinita miseria, specie quando si è intrecciato al malsano desiderio di possederlo di Paolo Anzones, noto Muscadellu.
Nel legno si sono come intagliati migliaia di segreti che i fratelli ascoltano dalle voci dei fratelli davanti al fuoco che scoppietta, cucendo insieme storie antichissime insieme all’ordito della più moderna storia della loro famiglia.
Ora, fra i segreti del bastone dei miracoli, c’è anche la loro storia, quella di un contadino anarchico e dei suoi figli con nomi di eroi.
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Delitto e castigo

5/6/2022

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Fa un caldo insopportabile a Pietroburgo, insopportabile come l’occhio avido della vecchia. Ingorda, avida e meschina. Se solo avessi i suoi soldi farei del bene, il suo sangue sarebbe versato per una buona ragione. Saprei gestirla, sono un superuomo, così mi sento, come Napoleone. Pensate forse che se Newton o Keplero, per illuminare l’umanità, avessero dovuto uccidere un uomo, o un centinaio di uomini, non ne sarebbe valsa la pena?
Questi pensieri affollano la mente di Rodion Romanovič Raskol’nikov, un attimo prima di agire.
Trova il coraggio e uccide la vecchia usuraia. In mezzo ci finisce anche la sorella, donna mite, ma d’altro canto, è un prezzo insignificante per il bene che si è ripromesso di fare. Solo che, poco dopo, una febbre cerebrale lo costringe a letto e qui, un tarlo inizia a scavargli nel cervello. Angoscia, rimorsi, pentimenti, tormenti intellettuali e soprattutto una desolante, inarginabile, sconfinata solitudine in cui il segreto del delitto lo aveva costretto. E se lo scoprissero ora? I suoi nervi, già compromessi, si deteriorano ogni minuto che passa. Il delitto era stato compiuto ma il castigo non era la galera, era lui stesso, affatto superuomo. In questo stato incontro Sonja, dagli occhi belli e il cuore puro, custode di una fede solida e profonda. Nonostante sia costretta a prostituirsi per mantenere la matrigna tisica e i fratellastri, Sonja è capace di donare una luce di speranza a chiunque la conosca, una luce che spazza via il nichilismo di Raskol’nikov. Si costituisce, viene mandato probabilmente a Omsk, sulle sponde del fiume Irtys, in un campo di lavoro, siberia occidentale. Sonja lo segue.
Il vero castigo di Raskòl'nikov non è il campo di lavoro a cui è condannato però, ma il tormento che, una volta penetrato dentro di lui, non lo abbandona mai, lo tormenta e lo lacera.
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L'albero

5/6/2022

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Questa è una storia che si intreccia ad un’altra che ho già raccontato.
Appartiene alla mia terra e ad un particolare fazzoletto di terra, di quelli che hanno poteri magici, perché, checché se ne dica, ci sono angoli del mondo che conservano, trattengono, trasmettono qualcosa. Prati diversi da altri prati, pietre diverse da altre pietre, orizzonti diversi da tutti quelli che puoi guardare.
Uno di questi si chiama “Benedicta”. È un posto bellissimo, in mezzo all’appennino, fra la Liguria e il Piemonte, se alzi gli occhi puoi vedere volare i falchi, è un posto dove arriva il vento di mare, un luogo che mischia la dolcezza dell’erba al colore aspro delle rocce e che sembra illuminato da una luce particolare. Sarà che rimbalza su una terra rossastra che, come ha scritto qualcuno che aveva voglia di poesia, è ancora intrisa del sangue giovanissimo di molti ragazzi che nella primavera del 1944 si erano dati alla macchia proprio in quei boschi aggregandosi a due brigate partigiane.
Ci furono degli scontri la sera del venerdì Santo, alcuni dei più inesperti si nascosero dentro un santuario che fu minato e fatto saltare in aria con loro dentro. In seguito i tedeschi rastrellarono 75 ragazzi che furono privati dei loro documenti, fucilati a gruppi di 5, e gettati in una fossa comune. Questa è la storia che ho già raccontato non accennando al fatto però, che questo posto magico è riuscito a prendere un inferno e a cavarne un sorprendente silenzio, una pace luminosa, un sacrario composto da poche pietre, bassorilievi discreti, l’elenco dei nomi, un bosco che restituisce una serenità che non so spiegare, che ti fa pensare a questa strana cosa che ci siamo abituati a chiamare vita e a ben pensarci è una matassa di gioia e morte, pace e dolore. E non sai mai dove comincia una cosa e finisce l’altra, cosa genera cosa, come tutto questo groviglio è collegato.
La storia nuova invece, che si intreccia con questa, è quella di un mio amico che, di tanto in tanto, viene da queste parti. Si siede poco più in là del sacrario, davanti ad un albero e guarda un prato diverso da altri prati, pietre diverse da altre pietre e soprattutto un orizzonte che gli alleggerisce un po’ il cuore. A lui è capitato di perdere un figlio molto giovane e dice che al cimitero non ci va. Gli fa tristezza forse o non ci trova la pace che cerca, magari non c’è abbastanza luce o non tira il vento che dovrebbe tirare. Ha preferito quindi piantare un albero qui. Un albero che porta il nome di suo figlio e cresce, i boccioli sbocciano ogni primavera, le foglie cadono ad ogni autunno, suonano verdissime quando in estate soffia lo scirocco e i rami sorreggono la neve in inverno. E qui riesce a sedersi e, forse, come me, sente un piccolo soffio di serenità che non sa spiegare. Forse anche lui pensa a questa strana cosa che ci siamo abituati a chiamare vita e che, se ti ci soffermi, è una matassa dolorosa che però, in un modo che non si capisce, se traffichi per sbrogliarla, è capace di legare pace, dolore, gioia e malinconia nello stesso nodo.
​E non capisci mai dove comincia una cosa e dove ne finisce un’altra, quali fili intrecciati ci siano, come questo garbuglio è collegato. Io non lo so e probabilmente neanche lui ma quando si siede all’ombra di quell’albero magari ci pensa, se lo domanda, e siccome questo posto è un po’ magico perché ha saputo conservare, trattenere, assorbire la storia grande, quella con la S maiuscola, magari è capace anche di conservare, trattenere, assorbire la storia più minuta, quella che non si scrive sui libri, quella di ognuno di noi e siccome questo posto un po’ magico sa pure rilasciare, trasmettere, far evaporare, allora può darsi che, stando attenti, qualche risposta si possa anche intuire.
QUI trovi l'altra storia alla quale faccio riferimento!

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La fattoria degli animali

5/6/2022

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Nel cuore della verdissima Inghilterra c’è Willingdon e poco fuori dalla cittadina c’è la fattoria di Mr. Jones. Qui accade qualcosa di straordinario, mai visto prima. Gli animali, stanchi di essere sfruttati, guidati da Palla di Neve e da Napoleone, si ribellano e la rivolta ha un tale successo che il fattore viene cacciato e la fattoria viene gestita autonomamente dalle sue bestie, ora non è più la fattoria di mr. Jones, ma la fattoria degli animali. Si stendono sette comandamenti il più importante dei quali è: “tutti gli animali sono uguali”. Palla di neve insegna a tutte le bestie a leggere e a scrivere, Napoleone educa i cani ai principi dell’animalismo. Sono loro due ora, due maiali, a guidare la fattoria.
Ma il signor Jones non si è arreso e torna in armi, con altri signorotti, ma gli animali oppongono una fiera resistenza e vincono ancora seppur a costo di gravi perdite. Palla di neve vuole modernizzare la fattoria ed espone il suo progetto: la costruzione di un mulino a vento ma Napoleone non è affatto d’accordo e fa assalire il suo compagno dai cani, si dichiara comandante supremo e cambia regime, abolisce il comitato e pone i maiali a capo di tutto. inoltre, facendosi aiutare dal suo amico Clarinetto, diffonde una falsa notizia, secondo la quale Palla di neve stava tramando per rimettere sul trono il fattore Jones.
Cambia l’inno e fa comporre un canto autocelebrativo che tutti dovranno imparare e se qualcuno dichiara di aver aiutato o di essere stato amico di Palla di Neve lo fa sbranare dai cani. Napoleone inizia a fare politica estera, tratta con un fattore vicino, Frederick, ne segue un’altra guerra, la demolizione del mulino, morti e feriti, fra i quali il cavallo Gondrano, venduto da Napoleone al macellaio in cambio di una partita di whisky. Passano gli anni, il signor Jones invecchia e muore e la condizione alla fattoria, invece di migliorare, sembra tornata a quella dei suoi tempi. Non ci sono più 7 comandamenti, ne è rimasto solo uno: "Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri" e anche la vecchia massima "Quattro gambe buono, due gambe cattivo" è stata sostituita gradualmente da "Quattro gambe buono, due gambe meglio" perché i maiali hanno iniziato a camminare su due zampe, ad indossare abiti sgargianti, a dormire su letti enormi e morbidi e a sbronzarsi di whisky quasi tutte le notti. Una sera, attorno ad una finestra illuminata della fattoria sono radunati tutti gli animali che sembrano sbirciare all’interno.
Quello che vedono è Napoleone che gioca a poker con alcuni fattori locali, stanno festeggiando, hanno appena sancito un’alleanza.
Poi Napoleone cala un asso di spade e lo stesso fa anche un tale Pilkington. Iniziano a litigare. Le bestie si guardano confuse, non riescono più a distinguere chi è il maiale e chi è l’uomo.
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I 4 giorni della "Terza Onda"

5/6/2022

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Ron Jones è un professore di storia, insegna alla Cubberley High School, Palo Alo, California e ha un cruccio. Nonostante tutti i suoi sforzi, i suoi allievi non riescono a comprendere come sia stato possibile che il nazismo, invece di suscitare scandalo e rigetto, abbia attecchito nell’opinione comune tedesca e di come l’ignoranza potesse essere usata come scusante per l’Olocausto. E allora, al professor Jones, viene in mente di fare un esperimento. Lunedì 3 aprile 1967 introduce piccole regole su come sedersi ai banchi, in modo da non perdere tempo, in modo da essere, dopo 30 secondi dal trillo della campanella, tutti seduti senza fare rumore e disposti all’ascolto. Martedì 4 aprile organizza le cose in modo che i partecipanti al suo corso si sentissero parte di una comunità con regole rigide e un progetto importante a cui diede il nome di “Terza onda”. Stabilisce un saluto con il quale i ragazzi potessero riconoscersi e automaticamente escludere coloro che non facevano parte di quella cerchia. Gli allievi iniziarono a salutarsi così anche fuori dalla classe. Il terzo giorno gli studenti passarono da 30 a 43. Si verificò un drastico miglioramento nelle loro abilità accademiche, sospinte da una motivazione fuori dal comune. Il professor Jones stampò alcune tessere per i membri, ad ognuno fu assegnato un compito speciale che coinvolgeva tutti a pieno titolo nel progetto. Fu ideato un rito di iniziazione per i nuovi membri e si istituì un picchetto per impedire l’entrata ai non allineati. Il movimento contava già 200 membri, molti dei quali, spontaneamente, riferivano al professore come e quando altri membri non si attenevano alle regole.
Il quarto giorno, il professor Ron Jones decise di porre fine all’esperimento iniziando a temere che gli sfuggisse di mano. Dichiarò che “La terza onda” era un movimento più largo, a carattere nazionale e che, nel pomeriggio, proiettato su uno schermo, tutti avrebbero potuto assistere ad un messaggio del leader supremo.
Tutti si presentarono puntuali all’appuntamento. Sullo schermo non passò però nessuna immagine. Trovarono solo il professore che comunicò loro che avevano appena preso parte ad un esperimento sul nazismo e che tutti loro, studenti che fino alla settimana precedente, non riuscivano a comprendere come l’orrore possa accadere, avevano volontariamente creato un senso di superiorità che i cittadini tedeschi ebbero nel periodo della Germania nazista. A quel punto proiettò sullo schermo un documentario sul terzo Reich.
L’esperimento aveva dato i suoi frutti avvelenati nel giro di 4 giorni.
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La vertigine

5/6/2022

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Era un bambino felice, in un modo indistinto, come lo sono i bambini, felici di tanti pezzetti particolari di felicità che neanche si curano di mettere in ordine.
Certo, in mezzo a quei pezzetti, c’era il cinematografo, ad essere precisi, il cinema centrale, il buio della fredda campagna intorno, il buio della sala, il velluto delle poltrone a ribalta, il fumo delle sigarette, la liquirizia, le caramelle colorate e i semi di zucca, le giacche sporche di grasso dei meccanici, il talco borato Paglieri.
Al bambino piaceva stare lì, a guardare i film che le zie lo portavano a vedere per avere una scusa buona per uscire con i fidanzati e baciarli.
Lui, 5 o 6 anni, appena appena distingueva qualche parola dei cartelloni, ma l’accordo con le zie era ragionevole: un film di spadaccini e un film d’amore, un film di antichi romani e un film d’amore, un vecchio western e un film d’amore. Una sera, mentre era felice, sgranocchiando semi di zucca, in mezzo alle zie intente a baciarsi con i rispettivi fidanzati, a tradimento, sullo schermo, due innamorati stavano ballando stretti in una balera ed è partita una canzone. Una canzone vecchia come il mondo, di Gino Latilla, che dice “è stata una vertigine, tenerti stretta al cuor” e ora ti dirò lasciandoti “scusami, scusami ancor”.
E il bambino, in quel momento, ha iniziato a piangere. Senza tristezza e senza dolore. Dolcemente. Senza disturbare, senza neppure smettere di succhiare la caramella. Il bambino era stato visitato dall’amore che, senza trovare difese, era entrato languido e fermo. Per sempre. Quella canzone, quel bambino, non l’ha mai più sentita, per molti anni, mai, né in radio, né in televisione, né da un’orchestra di una sagra paesana, mai, fino a quando è diventato uomo, come se fosse sparita dal mondo, ma lui non l’ha mai dimenticata ed ogni volta che l’amore riaffiora, riaffiora anche la canzone, e riaffiorano il cinema e la campagna e il film e la balera dove i due innamorati ballavano stretti e riaffiora prepotente la vertigine, lo sgomento, il languore e ancora la vertigine. Al posto del cinema centrale oggi c’è il parcheggio di un grande supermercato, della grande campagna è rimasto qualche alberello ficcato nel cemento. Di quel tempo è sparito quasi tutto, il talco borato Paglieri e l’olio dei meccanici, le ziette magari no, saranno chiuse dentro qualche casa, con i loro antichi fidanzati, in quella che un tempo era campagna ed ora è condominio o villetta a schiera.
E proprio davanti ai carrelli, questa mattina, un vecchio un po’ matto, ha intonato per il cielo e per i clienti del supermercato un canto stonato che teneva dentro il cuore da un sacco di anni.
Ora che è troppo vecchio per sopportare la perdizione di un amore così grande ha deciso di liberarlo e cantare l’unica strofa che ha mai conosciuto, quella che dice che è stata una vertigine tenerti stretta al cuor e che ora ti dirò lasciandoti scusami, scusami ancor.
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Il Conte di Montecristo

5/6/2022

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Se questa storia fosse una nave sarebbe in grado di attraversare tutti gli oceani, unicamente sospinta da un vento potentissimo che non conosce riposo e che gonfia, notte e giorno, le sue vele.
Questo vento è la vendetta. Edmond Dantes, a bordo del mercantile Pharaon, proveniente da Smirne, Trieste e Napoli, attracca nel porto di Marsiglia.
Il capitano della nave è morto all’altezza di Civitavecchia ma lui ha condotto la nave in porto con il carico in perfetto stato. L’armatore è contento di lui, vuole promuoverlo a capitano. Questo significa che Edmond, nato povero, potrà riscattarsi, migliorare la vita di suo padre e sposare la sua amatissima catalana, Mercedes.
Ma anche Ferdinand Mondego vuole Mercedes, anche Danglars vuole essere capitano e anche Caderousse vorrebbe le fortune che Dantes si è guadagnato. Lo denunciano come spia bonapartista e Gerard de Villefort, il magistrato che deve giudicarlo, pur conoscendo la verità, per ingraziarsi la famiglia filomonarchica dei marchesi di Saint Meran, lo condanna.
Rinchiuso a vita nel castello d’If. Qui conosce l’abate Faria. Il vecchio gli insegna la matematica, l’economia, la filosofia, le lingue straniere e gli rivela che, sull’isola di Montecristo, è nascosto un immenso tesoro. Infine gli fa un ultimo preziosissimo regalo. Morendo gli offre la possibilità, l’unica, di fuggire. Dantes si sostituisce al corpo del vecchio e, scambiato per il cadavere, viene gettato a mare. Dopo 14 anni a Marsiglia appare un uomo misterioso, ricchissimo, raffinato che si fa chiamare “Il conte di Montecristo”. Nessuno se ne dà conto, ma quell’uomo è tornato con un unico scopo: vendicarsi. Prepara con arte la sua vendetta, gli ci vogliono altri 10 anni. In questo tempo assume molte identità, diventa l’abate Busoni, il nobile inglese Lord Wildmore o Sinbad, il marinaio. Gratifica coloro che gli sono stati leali e aspetta il momento giusto per colpire coloro che hanno distrutto i suoi sogni e la sua vita. Mondego, che nel frattempo, era riuscito a sposare Mercedes viene processato per aver tradito il pascià Ali-Tebelen.
Indignati del suo comportamento moglie e figlio lo abbandonano facendolo sprofondare nella disperazione dalla quale uscirà solo suicidandosi. Poi è la volta di Villefort, il magistrato, colui che aveva tutti gli elementi per scagionarlo ma che aveva scelto di non usarli per propria convenienza. I membri della sua famiglia cadranno vittime di una serie di avvelenamenti che lo porteranno alla pazzia non prima che egli scopra la vera identità del conte di Montecristo. Caderousse poi, diventato un criminale avido e senza scrupoli viene ucciso da un suo complice.
Resta solo Danglars, il primo, quello che ha dato l’avvio a tutte le sue sventure. Ora è il banchiere più ricco di Parigi ma Dantes fa in modo che abbia un tracollo finanziario e sia costretto a dissipare tutto quel che ha per sfamarsi.
Quando è solo, povero e senza più nessuna speranza, il conte di Montecristo gli si rivela per quello che è. Danglars si pente e solamente a lui viene concesso perdono, forse perché era sincero, forse perché il terribile vento della vendetta si era acquietato nel cuore di Edmond Dantes.
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A sangue freddo

3/23/2022

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C’è un limite nei consueti romanzi di fiction, mancano di verità o almeno non riescono a raccontare la società. Così, mentre sta leggendo il New York Times, la mattina del 16 novembre 1959, Truman Capote rimane con la tazza di caffè a mezzaria. È solo un trafiletto: un contadino benestante del Kansas, tale Herbert Clutter, sua moglie Bonnie, Nancy e Canyon, due dei suoi quattro figli, sono stati uccisi. Nella testa di Truman si accende una scintilla, forse questa può essere la storia che cercava, la storia che ci vuole, quella storia, fra le storie, che merita di essere raccontata. Chiama la sua amica d’infanzia, Harper Lee, anche lei scrittrice e insieme partono per Holcomb. Qui, prima che partano le indagini, iniziano a parlare con la gente, a chiedere, a capire, vogliono sapere, fanno congetture e intanto prendono appunti, scrivono pagine, appuntano nomi, luoghi, tragitti. Ci vorranno sei settimane prima che la polizia esca dalle tenebre in cui ha brancolato per giorni. La soffiata di un carcerato, un furto d’automobile di due sbandati, un lungo interrogatorio ed ecco che Perry Edward Smith e Richard Hickock sputano fuori tutto nella migliore tradizione del male e della sua banalità. Pare che i due, in carcere, avessero sentito di un agricoltore che avrebbe avuto una cassaforte piena di soldi, così, con queste vaghe informazioni, entrano in casa della famiglia Clutter, non trovano la cassaforte ma trovano Herbert, Bonnie, Nancy e Canyon e la cose vanno come vanno. Per i successivi sei anni Truman Capote lavora al suo libro, probabilmente il primo "romanzo-reportage" o "romanzo-verità" della storia della letteratura e per farlo frequenta assiduamente molti protagonisti della vicenda. La scelta di raccontare i delitti di Holcomb, avrà molte conseguenze, sia sull’opinione pubblica che lo tratta come una specie di morboso voyeur eppure freddo e distaccato, sia sulla sua esperienza emotiva tanto che questo sarà l’ultimo romanzo che porterà a termine. C’è uno doloroso stridore quando esce l’ultima puntata della storia sul New Yorker. Viene festeggiata con un ballo in maschera al Plaza Hotel. Negli anni successivi, Truman Capote, sarà spessissimo ospite di trasmissioni tv e rotocalchi. Il romanzo si chiama “A sangue freddo” e, secondo alcuni, non poteva essere altrimenti.
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Una madre alla stazione

3/23/2022

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Alla stazione di Zaporizhzhia c’è una signora con i capelli rossi, il viso sofferto, un po’ slavato, gli occhi chiari e gli zigomi alti, tipici delle donne dell’est. Abbraccia un bambino e poi gli scrive qualcosa sulla mano, da lontano non si vede cosa, non si vede quasi niente a dire la verità, è pieno di gente che si ammassa, urla, strepita, piange, scappa.
A Zaporizhzhia c’è pure una centrale nucleare, non una, LA centrale nucleare, la più grande d’Europa. Ci sono i soldati russi lì. Il bambino ha un cappello blu, con il pon pon, un piumino, si guarda un po’ attorno, si sistema uno zainetto sulla spalle esili, spalle di un bambino di dieci anni.
Hanno un bel peso ora da reggere.
A volte si dice che i bambini non capiscano bene cosa gli accade intorno. Non è vero. Credo che lui abbia capito tutto. L’orrore no, probabilmente quello non lo capisce, ma capisce cosa deve fare e credo avesse paura. Quella paura dei bambini, più sfumata di quella degli adulti ma più densa, inafferrabile, squamosa.
La signora ora lo abbraccia e lo mette sul treno e poi prega, se ha un Dio a cui rivolgersi, oppure spera, come facciamo tutti quando non sappiamo con chi parlare.
Quel bambino si fa 1000 chilometri, da solo, in mezzo a sconosciuti. Chissà se sul treno ha trovato qualcuno che lo ha incoraggiato o se si è fatto il viaggio tutto in silenzio, in mezzo ad altri silenzi, pesanti come i cappotti, pesanti come l’incertezza, come il buio. Fino a Leopoli, fuori dal finestrino, sembra scorrere il film di questi sentimenti: una piana fredda, innevata, scura. Case e strade distrutte. Poi sempre un po’ meno man mano che si viaggia verso ovest. Poi passa il confine, arriva in Slovacchia, sfiora Katowice, passa per Brno e infine finalmente arriva a Bratislava.
Qui ci sono dei volontari che sgranano gli occhi quando vedono arrivare questo ometto con il suo zainetto e il suo pon-pon. Un po’ spaesato, un po’ eroico. Dopo averlo portato al caldo, avergli dato qualcosa da mangiare e da bere, lui allunga la mano. Ora si vede cosa c’è: un numero di telefono e un breve messaggio della madre che ringrazia chiunque lo aiuterà. Ora sta con alcuni suoi parenti. È al caldo, sta bene. La madre è ancora a Zaporizhzhia, accanto alla madre, accanto alla centrale, sulle sponde del Nipro.
Ho scelto questa storia per celebrare uno dei sentimenti più nobili degli esseri umani. Mi riferisco alla fiducia verso gli altri esseri umani. Questa storia racconta come, proprio quando la fiducia nell’umanità dovrebbe essere perduta, una madre, per quanto costretta, sceglie di fidarsi degli altri, di affidare suo figlio alla compassione di estranei. E, nonostante tutto, credo che la vita si mandi avanti così.
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