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I pedalò sono come gli spinelli

8/11/2022

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Ve lo ricordate Giovanardi? Era uno che diceva che è sicuro che se uno un giorno si fa uno spinello, prima o poi morirà con una spada di eroina nel braccio. Garantito. Visto che è uno che evidentemente si intende di degenerazioni, mi chiedo: dov’era agli albori del pedalò? Dovete sapere che c’è stato un tempo in cui ai nostri giovani bastava il mare. Se ne andavano su un tratto di costa, stendevano una stuoia, i più abbienti affittavano una sdraia, e se ne stavano lì, a godere del suono del vento, del lento sciabordio delle onde, ciucciando un calippo. Poi sono arrivati i pedalò e, lì per lì, nessuno pensò fossero pericolosi. In fondo non infastidivano nessuno. Il pedalò funziona con l’olio di ginocchio, con la propulsione dei polpacci, con l’arroganza della nuda pianta del piede. Ma, senza che nessuno se ne accorgesse, il pedalò ha sdoganato un concetto: il mare può averci gli optional. E una volta che ne provi uno, ne vuoi sempre di più. Nessun giovane si sarebbe più accontentato del mare, così com’è. I giovinastri hanno iniziato a giocare a racchettoni sulla battigia. Mentre prendi il sole. Tap-tap-tap, oh, scusi. Scusi un cazzo, se non sapete fare uno scambio di più di tre colpi, è evidente che lo sport, qualsiasi sport, non fa per voi, non dico Wimbledon ma che cazzo! I giovinastri hanno iniziato a mettere le casse fuori dai chiringuitos con i tormentoni. Ma perché? È così bello il rumore del mare, non vi piace più? Lo scrivono anche i poeti in quei cazzo di versi che citate sui social, perché le casse con i bomdabash? I giovinastri hanno iniziato a pretendere le moto d’acqua…ma perché? Dove cazzo dovete andare alle 4 del pomeriggio di ferragosto? Dove? In Albania? In Corsica? In Tunisia? Magari! Andate avanti e indietro lungo la linea dell’orizzonte per poi tornare sempre a riva. I gonfiabili a forma di unicorno, di ciambella americana, di anguria; il dj set al tramonto, i droni che ronzano come calabroni. Perché vuoi vedere il mare da 30 metri di altezza? Se i droni avessero una dignità si suiciderebbero come prodi kamikaze sulle teste di quelli che stanno in piedi come dei fenicotteri zoppi sulle stand up paddle, quelle assi da stiro per surfers che non ce l’hanno fatta. Non è un caso se il surf lo fanno dove ci sono le onde e il windsurf lo fanno dove c’è vento, ma lo capisci che se non ci sono onde e non c’è vento, sopra quell’affare sembri un orso polare alla deriva su un pezzo di ghiaccio che si è staccato dalla banchisa? Abbiamo cominciato con i pedalò e siamo finiti all’eroina. Non ce l’ho con voi eh, lo so che gli optional danno dipendenza, succede a tutti, non se ne può più fare a meno, solo mi chiedo: Dov’era Giovanardi quando serviva? Dov’era?

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L'arena erbosa

8/11/2022

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Ho sempre avuto una certa fascinazione per quei fiori che crescono in mezzo all’asfalto, nelle crepe dei muri, in mezzo ai rifiuti. Nonostante i tubi di scappamento, nonostante la mancanza di acqua e di luce, nonostante la terra inquinata ce la fanno, magari per poco, ma ce la fanno a sbocciare. Questa è la storia di un uomo che assomiglia a quei fiori, si chiama John Healy. Nasce a Kentish Town, north London, famiglia irlandese, un padre con una bella fila di denti bianchi e un bel sorriso che però con lui non rideva mai. Erano soprattutto botte. E allora la prima cosa che a John viene da fare è il pugile, lo fa nell’esercito e come prima cosa, gli riesce bene. È uno stereotipo d’altra parte, no? Il picchiatore irlandese. Quelle botte che ha preso però hanno lasciato quei segni che non si curano, anche qui sarà uno stereotipo, sarà retorica, ma John inizia a bere e a breve si ritrova per strada con un gruppo di balordi. Per anni non fa altro che camminare per la città cercando qualcuno che gli offra da bere. Di notte si infila negli anfratti dei cantieri, sposta lamiere e ci si infila in mezzo, si protegge dal vento e dalla neve, costantemente intontito, costantemente immerso in una sottocultura dove violenza e soprusi sono la norma. Ne vede cadere tanti. Le risse nascono dal niente, si rompe un pezzo di legno, si afferra un tubo di metallo abbandonato, si rompe una bottiglia e qualcuno muore. Si cerca di non farsi trovare in giro quando arriva la polizia. John fa dentro e fuori dalla prigione. A Petonville, nel 1971, come compagno di cella, gli capita Harry Collins, detto Brighton Fox. Lo chiama “Oliver”, come Oliver Twist. John lo vede concentrato su un gioco di cui non sa nulla, gli scacchi. Harry gliela spiega così: “sulla scacchiera puoi fare tutto quello che fai per strada ma senza finire in galera”. John rimane affascinato, in poco tempo impara. Io non so giocare a scacchi ma so che chi è bravo ne è ossessionato, si stacca dal mondo reale, il suo cervello è in grado di elaborare una serie di casistiche e di patterns che richiedono un’intelligenza non comune. Quando esce inizia a giocare professionalmente, gli scacchi lo assorbono, smette di bere, nell’ambiente si accorgono immediatamente di lui, ha un grande talento, vince 10 tornei internazionali ma, ad un certo punto, realizza che non riuscirà a diventare un maestro. Di solito, i più grandi, iniziano a giocare a 5 anni, lui ha iniziato a 30, non riesce a colmare il gap. Ci mette un anno ad accettarlo, sbanda di nuovo ma questa volta senza deragliare perché, in carcere, era successa un’altra cosa. Aveva disobbedito ad un ordine e un secondino gli aveva dato due calci in bocca e lo aveva sbattuto in isolamento. La cella era piccola e buia, non c’era nessuno, niente da guardare. Quindi lui si sdraia a terra e inizia a respirare lentamente, per calmarsi, poi diventa consapevole del proprio respiro e la cosa lo rasserena come non gli era mai capitato. Fuori dal carcere incontra una donna, è un insegnante di yoga, anche in quello diventerà bravo. Nessun pensiero filosofico o spirituale, dice lui, lo fa solo quando gli serve, ma lo pratica con grande efficacia. Torna da sua madre. Per lei deve essere stato abbastanza scioccante, non aveva sue notizie da 10 anni, probabilmente pensava fosse morto, sta con lei perché non ha un tetto, finirà per assisterla quando lei si ammalerà di Alzheimer. Mentre vive con sua madre, fa il tuttofare per raggranellare qualche soldo e si trova a tagliare l’erba di un giardino di una clinica oncologica dove incontra una paziente, si chiama Jo Spence, è una fotografa che lavorava al british film institute e John le parla di un manoscritto che tiene nel cassetto, ci ha lavorato nel corso degli anni, quando sentiva di dover sputare fuori racconti di quella vita di merda che faceva ai margini della società. Jo Spence pensa sia bellissimo, gira il testo a Colin McCabe che siede nel direttivo della casa editrice Faber&Faber. Nel 1988 il libro esce, si intitola “The grass arena” e riceve critiche straordinarie, vince il prestigiosissimo J.R.Ackerley Award, da quelle righe viene tratto un film che uscirà nel 1991. Purtroppo, poco dopo il lancio, John litiga con i vertici della casa editrice, per soldi pare, la pubblicazione viene interrotta e lui finisce nel dimenticatoio per altri vent’anni, finché il libro non viene ripubblicato dalla penguin classics, niente meno. Oggi John Healy vive a Londra, ha 79 anni, parla poco, si dice che non sia facile comunicare con lui. L’unica cosa che gli interessa, pare, è trovare un po’ di pace mentale, con lo yoga ci riesce, perché trascende. Poi però torna qui e qui, dice, è più difficile.
Se ti affascinano "gli scrittori maledetti", prova a LEGGERE/ASCOLTARE cliccando qui!

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Shakespeare è davvero esistito?

8/4/2022

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A teatro basta accendere o spegnere una luce, spostare una quinta, ruotare un elemento della scenografia e i personaggi compaiono o spariscono, nascono o muoiono, si esaltano o sprofondano.
E c’è una storia misteriosa che, vera o no, è bello raccontare. La storia secondo cui il più grande drammaturgo di tutti i tempi, William Shakespeare, non sarebbe mai esistito.
Troppo poco spesso si ricorda che prima che il bardo diventasse quello che tutti sappiamo, in Inghilterra il pubblico adorava una star di dimensioni gigantesche: Christopher Marlowe, autore delle passioni maledette, l’insana brama di potere di Tamerlano, la sfrenata sensualità di Edoardo II, la smodata avidità dell’ebreo di Malta o l’infinita sete di conoscenza del dottor Faustus.
Figlio di un calzolaio di Canterbury, Christopher, detto Kyt, è un uomo controverso, dissoluto, sul quale pesavano feroci accuse di militanza nei servizi segreti e di libertinaggio.
In ogni caso, nel 1593 Christopher Marlowe ha 29 anni ed è considerato il più grande artista vivente mentre di William Shakespeare non si sa nulla.
In realtà esiste qualche documento datato 1592 che parla di alcune prime opere del poeta di Stratford-upon-Avon ma le carte di quegli anni sono spesso imprecise, approssimative nella datazione e, anche questo, ha alimentato la leggenda.
Comunque, il 30 maggio del 1593 Marlowe se ne va a Deptford per fare un po’ di bisboccia e prende una stanza in affitto da Eleonor Bull, insieme a tre amici: Ingram Frizer, usuraio e agente di Walsingham, capo dei servizi segreti, Robert Poley, corriere segreto della Regina di ritorno dai Paesi Bassi e Nicholas Skeres, ricettatore e agente segreto a sua volta.
Qui, ad un certo punto, la situazione deve essere sfuggita di mano perché Frizer, dopo essere stato lievemente colpito sulla nuca, accoltella Marlowe in un occhio e Marlowe muore.
Le frettolose indagini, la nebulosa dinamica dell’incidente, la grazia accordata a Frizer poco tempo dopo l’omicidio hanno, fin da subito, alimentato molti dubbi su come le cose fossero davvero andate.
Fatto sta che fra la fine del 1593 e il 1594 a Londra ci fu una terribile epidemia di peste e i teatri chiusero. Quando riaprirono nell’autunno del 1594 l’astro di William Shakespeare esplose:  Romeo e Giulietta,  Sogno di una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia, Molto rumore per nulla, Come vi piace, La dodicesima notte, Le allegre comari di Windsor e così via, un capolavoro dietro l’altro, ad un ritmo galoppante.
A quel punto, a qualcuno, è saltata in testa una domanda torbida ed affascinante:
E se, da vero agente segreto, Christopher Marlowe, che allora navigava in pessime acque e doveva difendersi da accuse di ateismo, blasfemia, sedizione, omosessualità, avesse inscenato la sua stessa morte?
E se, d’accordo con altri tre agenti, suoi sodali, avesse costruito ad arte la rissa che avrebbe messo fine ai suoi giorni?
A quel punto, ormai libero dal suo pesantissimo nome, avrebbe potuto attendere nascosto, aiutato anche dalle quarantene imposte dalla peste, per poi rivelarsi al mondo come la nuova stella del teatro, esplosa all’età di circa 30 anni?
C’è un verso, in “Come vi piace”, commedia pastorale del 1599, che dice testuale: “Morto come un uomo che fa un rendiconto in una piccola camera”.
La storia non sarà vera ma gli elementi per una bella bugia ci sono tutti, che dite?
Vi va di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia del bardo? Ecco un classico! 

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Le gemelle Gibbons

8/4/2022

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Nodo: Intreccio ottenibile in forme diverse.
Questa è la definizione del termine nodo. Quello che però questa definizione non dice è che, fra le forme diverse, ce ne sono alcune che lasciano stupefatti per la loro forza ostinata, eppure impalpabile.
June e Jennifer Gibbons nascono a Barbados, agli inizi degli anni ’60, sono gemelle e sono due bambine perfettamente normali.
Quando sono ancora molto piccole però, al padre, che è un tecnico aeronautico, viene offerto un lavoro molto importante nella Royal Air Force, così lui decide di trasferirsi con tutta la famiglia in Galles.
Qui le bambine si trovano catapultate in una cittadina estremamente razzista, un ambiente che percepiscono come terribilmente ostile.
Ed è a questo punto che il nodo si stringe e si fa inestricabile.
June e Jennifer iniziano ad isolarsi ogni giorno di più. Quella che, all’inizio poteva sembrare una reazione comprensibile, degenera al punto che le due bambine escludono anche la propria famiglia dalla bolla, inventano una lingua che solo loro possono comprendere, architettano insomma un modo popolato unicamente da loro due.
I genitori tentano varie terapie psicologiche che non danno alcun risultato, provano anche a separarle ma, visti gli stati d’ansia che sfociano in stati catatonici, tornano e riunirle senza che la condizione di isolamento in cui si erano relegate accennasse a cedere.
L’unica breccia sembrò provenire da una vocazione letteraria: June e Jennipher iniziarono a scrivere racconti, piece teatrali, brevi romanzi, anche di una certa qualità secondo alcuni, anche se la loro unica intenzione era quella di regalarli alla loro sorella più piccola.
Ma il nodo non smette di tirare e sembra stritolare cuore e spirito.
Da quel mondo lontano e segreto inizia ad emergere una rabbia incontenibile che si manifesta in furti e soprattutto incendi che le gemelle appiccano con la ferocia della vendetta.
Sembra non esista altra soluzione ormai che rinchiuderle in uno degli ospedali psichiatrici più sicuri di tutto il Regno Unito: Broadmoore.
Qui, sedate da numerosi psicofarmaci, le gemelle continuano a non dare alcun segno di voler uscire dal loro isolamento, fino a che il loro caso non arriva all’orecchio di Marjorie Wallace, una delle migliori penne del Sunday Times.
La signora Wallace desidera parlare con le ragazze, si reca molte volte nel Berkshire e riesce a fare quello che nessuno, fino a quel momento, era riuscito a fare: si fa aprire la porta.
E, una volta dentro, dopo molti mesi di osservazione, scopre un’altra cosa sorprendente. Il rapporto fra June e Jennipher è di grande amore ma anche di odio.
Entrambe sanno di essere prigioniere di loro stesse, sanno che quel nodo fa loro male e, per qualche motivo, pensano che possa essere sciolto solo se una delle due muore.
Nel 1993, senza alcun preavviso, Jennipher svenne e morì poche ore più tardi, in conseguenza di una miocardite acuta.
L’autopsia acclarò che nel suo organismo non c’era traccia di veleno né di qualsiasi altra sostanza che avesse potuto provocare la morte.
Il nodo era sciolto, June era libera.
Dopo pochissimo tempo iniziò a socializzare con le altre persone, oggi vive in Galles, perfettamente integrata.
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Il banchiere fruttivendolo

8/4/2022

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Non so allora ma oggi Favale di Malgaro, vicino a Genova, è un comune che conta, più o meno, 450 abitanti. Da lì parte la famiglia Giannini alla volta delle Americhe e nelle Americhe fanno nascere Amadeo Peter, a San Jose, California, è il 1870.
Amadeo è uno che si fa un mazzo così: facchino, poi fruttivendolo, poi socio di quello stesso negozio che vende frutta e alla fine è talmente intraprendente che finisce a lavorare in una piccola banca locale, come amministratore. Il sistema bancario però non gli piace per niente: presta soldi solo ai ricchi affinché ne facciano ancora di più mentre, intorno a lui, siamo nei primi anni del ‘900, un mucchio di immigrati lavorano come muli senza che nessuno pensi di dar loro il minimo aiuto.
Amadeo vede un locale che gli piace, è un saloon, raccatta un bel po’ di soldi in prestito, si licenzia e fonda a 33 anni, la bank of Italy, pensata proprio per quella sfilza di contadini, piccoli artigiani, negozianti che venivano considerati solo dagli usurai.
Lui accorda prestiti anche solo per 25 dollari e come garanzia si assicura solo che i suoi clienti lavorino duro, chiede in giro, niente di più. In meno di un anno raggiunge un milione di dollari di depositi ma nel 1906 il terremoto scuote dalle fondamenta San Francisco e anche l’ex saloon va in frantumi. Si riesce comunque a salvare la cassaforte. È tutto quello che serve, insieme ad un tavolaccio messo in mezzo al via vai del porto e ad un cartello: “Bank of Italy”, prestiti per la ricostruzione.
Grazie a lui il quartiere italiano è il primo ad essere ricostruito, anche grazie a lui nasce l’industria del vino californiano perché finanzia chi voleva piantare vigneti, anche grazie a lui viene girato “Il monello” di Charlie Chaplin, lui finanzia i primi film di Walt Disney, lui dà una mano a Frank Capra, ancora lui rinuncia ad un milione e mezzo di dollari di suo personale guadagno per metterli a disposizione della università della California per un progetto di sviluppo dell’agricoltura e sempre lui finanzia con un tasso prossimo allo zero la costruzione del Golden Gate.
Nel 1930, sfidando tutto l’establishment newyorchese che lo chiama il fruttivendolo italiano, cambia il nome della banca che da “Bank of Italy” diventa “Bank of America”.
Molti di coloro che lo sminuivano colano a picco a seguito della Grande Depressione perché avevano investito in azioni che perdono rapidamente il loro valore, la banca di Amadeo Peter Giannini no, perché ha sempre investito sull’economia reale a tassi molti bassi.
Una volta disse che chi desidera accumulare più di 500.000 dollari andrebbe compatito e curato da un bravo psichiatra, quando muore a 79 anni il suo patrimonio ammonta a 489.000 dollari che lascia interamente alla formazione dei dipendenti e alla ricerca medica.
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Il sillabario di Sequoyah

7/14/2022

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Arkansas, primi anni dell’800.
Due inglesi sudati e con la faccia da avvoltoi fissano un foglio di carta. Uno elenca ad alta voce una serie di oggetti che vuole gli vengano riportati, l’altro muove un attrezzo lungo e sottile su un foglio di carta. Poi lo solleva e ripete la stessa lista di oggetti, nello stesso ordine, senza un attimo di esitazione.
Poco lontano, seduto all’ombra di un albero, c’è un pellerossa, si chiama Sequoyah è diverso da come potremmo immaginare un Cherokee, ha un turbante rosso e bianco, pelle scura, rasato, indossa una palandrana azzurra e fuma una lunga pipa ma, ciò che è più importante è che è stupefatto. Come tutti i Cherokee anche Sequoyah era analfabeta ma, in quei segni, si nascondeva il modo per aiutare la memoria a ricordare.
L’indiano era un fabbro ed iniziò ad associare ad ogni suo cliente un disegno attorno al quale linee e cerchi di varie misure gli ricordavano quanto denaro ogni persona gli doveva.
Intorno al 1810 iniziò a pensare che gli sarebbe piaciuto inventare un sistema di segni per mettere su carta la lingua Cherokee. Iniziò con un sistema di pittogrammi ma era complicatissimo, lo abbandonò subito. Poi tentò di associare un disegno ad ogni parola ma, anche qui, quando si rese conto che i segni diventavano centinaia, migliaia, abbandonò l’impresa, i segni non bastavano mai.
Una notte ebbe una folgorazione, forse ascoltando il pianto di un bambino, forse l’abbaiare di un cane, forse lo scroscio della pioggia.
Intuì che ogni parola era composta da un piccolo numeri di suoni che si ripetevano, quelle che oggi noi chiameremmo sillabe, e allora iniziò ad elencarle.
Si fece prestare un sillabario inglese da un maestro di scuola, copiò alcuni segni dell’alfabeto inglese, altri li inventò di sana pianta, fino ad arrivare ad una prima lista di 200 segni ma lavorandoci e lavorandoci ancora, riuscì a ridurre il tutto a 85 segni.
I Cherokee, per la prima volta nella loro storia, avevano una lingua scritta.
Nel giro di pochi anni la impararono tutti, davvero tutti. Si comprarono un torchio da stampa, fusero in piombo i segni di Sequoyah e iniziarono a stampare libri e giornali che parlavano del loro popolo.
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Il bacio di Alfred Eisenstaedt

7/13/2022

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Il 6 luglio di quest’anno, ieri per l’esattezza, rispetto all’uscita di questo episodio podcast è stata la giornata mondiale del bacio. Al di là della saturazione delle giornate mondiali, tanto che servirebbe una giornata mondiale per celebrare le giornate mondiali, questa è una bella giornata che mi va di celebrare, perché negli ultimi anni il covid ha gettato un velo di sospetto su questo gesto bellissimo, quindi vi racconto la non edificante storia di uno dei baci più famosi della storia dei baci.
Il 14 agosto 1945 a Times Square c’è un sacco di gente, la guerra è finita, la gioia è incontenibile e Alfred Eisenstaedt, un fotografo 47enne, si aggira per le strade cercando di catturare immagini che raccontassero al mondo quel momento.
Ad un certo punto vede un marinaio che incede a passo svelto, abbracciando persone, con l’euforia tipica di chi ha bevuto qualche bicchiere di troppo. Poi un lampo bianco che fa girare di scatto il fotografo e gli fa premere il dito sul pulsante che fa fare l’occhiolino all’otturatore della sua Leica Illa. Sono le 17 e 51 minuti e lui ha appena scattato una delle foto più iconiche del ‘900.
Un marinaio ed un’infermiera, simboli della vittoria americana, belli ed innamorati, che si baciano per festeggiare la fine della seconda guerra mondiale.
I due si disperdono, c’è confusione, Alfred non fa in tempo, e forse neppure pensa, di chiedere come si chiamino quei due ragazzi che finiranno sulla copertina di Life.
Vista la fortuna della foto, negli anni a seguire, molti si presenteranno alla redazione del giornale dicendo di essere i protagonisti di quello scatto storico, almeno 3 uomini e 2 donne, nel corso degli anni 50, 60 e 70 ebbero il loro momento di celebrità grazie alla bugia raccontata ma la verità, quella vera, la vera verità, e non per forza migliore, venne a galla solo nel 2012.
Lui si chiamava George Mendonça e lei Greta Zimmer Friedman. Lui era in effetti un marinaio, lei invece era un’igienista dentale.
Non si conoscevano neppure, altroché fidanzati o innamorati.
Lui passò, la abbracciò in un impeto di gioia e alcol e la baciò. Lei rimase interdetta e, un attimo dopo, proseguì la sua passeggiata a Times Square.
Non si videro mai più.
Forse, per la giornata mondiale del bacio, possiamo riferirci ad altri baci, nostri o di altri, reali o dipinti da qualche pittore famoso, purché si celebri questo momento speciale nelle vite di tutti noi.
E pure la foto di Alfred Eisenstaedt che rimane uno scatto emozionante.
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L'orologiaio del Cairo e il tempo del mondo

7/13/2022

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Ero tornato in nordafrica a cercare un vecchio orologiaio che aveva il suo sgabuzzino alla periferia del Cairo.
Non ero neppure sicuro di trovarlo, visto che, già quando lo avevo incontrato, mi pareva vecchissimo, seppur molto energico, per quanto la calura della latitudine e i gesti lenti della sua cultura glielo permettessero.
Temevo quindi di non trovarlo più ma quello che non avevo messo in conto era di non ritrovare più il suo bugigattolo, sostituito da un ristorante modesto, con orribili insegne al neon, sedie di plastica e un lungo bancone al posto di quello che era il suo piano di lavoro.
Sono entrato comunque, l’ora di pranzo era passata da un pezzo e, nonostante il luogo non fosse per niente attraente, nel quartiere sembrava l’unica possibilità per mangiare ancora qualcosa.
Mentre consumavo un piatto modesto come il locale, un ticchettio ha iniziato a salire di volume senza che capissi esattamente la sua provenienza.
Sembrava uno dei tanti ticchettii che occupavano lo spazio sonoro della vecchia bottega, anche se aveva un andamento irregolare, diverso da quello di un comune orologio, non sembrava insomma scandire un tempo comune.
La suggestione e la canicola fanno scherzi bruttissimi da quelle parti, come quando una folata di vento alza una nuvola di polvere e quando si deposita pare che siano cambiati i colori, le persone, le traiettorie, tutto il mondo che avevi visto fino a poco prima, insomma.
Per tutta la giornata quel ticchettio mi è rimasto in testa.
Tornato alla mia pensione, un basso edificio schiacciato fra alcuni palazzi del centro, mi sono messo a letto fissando la ventola che girava regolare e che mi ha fatto sprofondare in un sonno incerto, senza che il ticchettio smettesse di dettare il suo ritmo.
In quel sonno, il vecchio orologiaio mi è apparso, era in un nuovo negozio, in una nuova città, e lavorava ad un solo nuovo orologio.
Un elegante orologio a cipolla, da panciotto, che intagliati sulla scocca aveva disegni di datteri e limoni, fiori e cedri ed una scritta in arabo che nel sogno sapevo leggere ma che ora non sarei in grado di riferire.
L’orologio era composto da quattro cerchi concentrici che si muovevano a diverse velocità con un meccanismo che sembrava avere la precisione di un planetario.
Il vecchio correggeva qualcosa con un minuscolo cacciavite a stella, lo zuccotto gli stava in testa fermo come la luna piena e gli occhi azzurri, come il guizzo di un pesce, all’improvviso si alzarono e mi salutarono.
Senza che chiedessi nulla mi spiegò a quale orologio stava lavorando. Era un aggeggio che misurava varie scale temporali, mi spiegò. Il cerchio più esterno, la corona principale, misurava il tempo della natura, quello geologico.
Osservai che non si muoveva di un millimetro.
“No, si muove”, disse lui, “ma è un tempo troppo lento perché tu lo veda, “è il tempo in cui i ghiacciai scavano i canyon, il tempo in cui gli uccelli sviluppano le ali. È il tempo dell’eternità. La seconda ghiera invece misura il tempo della cultura”, continuò, “quella nostra, quella vostra, quella degli ebrei, dei cinesi o di chissà chi altri…”.
Anche quella mi sembrava ferma ma non dissi niente. Lui rispose lo stesso: “Anche questa ha un tempo troppo lento perché tu lo veda ma va molto più veloce di quella esterna.”
“E questa?”, chiesi, indicando la successiva. “Questa è quella dei governi: dittatoriali, monarchici, repubblicani. Questa la puoi vedere muoversi nel corso della tua vita oppure no. Quella successiva invece è quella delle opere: ponti, strade, canali che vengono eretti e crollano.”.
“L’ultima sembra impazzita.”, dissi.
“L’ultima è quella delle mode, stili, capricci, regolucce umane”, varia a gran velocità, tanto che i perni si usurano, ne stavo giusto sostituendo uno.”, disse mostrandomi il cacciavite minuscolo.
“E a che serve questo orologio?”
“A misurare il tempo del mondo.”, disse come se fosse cosa di piana ovvietà. “A ricordarsi di non perdere la capacità di distinguere fra le diverse scale di tempo, i governi non dovrebbero seguire il tempo delle mode, la cultura non deve ambire all’eternità e così via…ad ogni cosa la sua corona, la sua ghiera, il suo tempo.”
“E questo?”, chiesi indicando una specie di barometro che stava a lato del quadrante.
“questo è un meccanismo che divide il tempo lineare da quello prezioso, ci sto ancora lavorando”.
Mi svegliai che il ticchettio non c’era più, il sole stava tramontando in un bagno di rosso e rosa e una brezza risollevava lo spirito senza spiegarmi a quale tempo appartenesse quel momento.
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La danza di Çorkan

7/13/2022

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Se c’è una cosa noiosa sono le lunghe notti d’autunno a Visegrad.
Gli abitanti se ne stanno vicino alla stufa nella locanda accanto al ponte sulla Drina ma le ore sono lunghe da far passare, presto scarseggiano sia le parole che le risate.
Per fortuna capita spesso che ci sia quel disgraziato di Ćorkan che prova a farsi asciugare dall’umidità gli stracci che si porta addosso.
A parte qualche lavoretto saltuario, Ćorkan si guadagna da vivere facendosi prendere in giro da generazioni di ragazzotti e da qualche signorotto che gli offre rakija e ruhm e qualche moneta.
La storia è sempre la stessa, quella di una ballerina di cui, tanti anni prima, quell’avanzo di uomo di Ćorkan si era innamorato.
Si fanno raccontare la storia e raccontare ancora, piovono i commenti, davanti lo trattano come un casanova ma dietro si danno di gomito e sghignazzano. Lui lo sa, ogni notte si dice che non lo accetterà più ma poi l’alcol, le monete, le pacche sulle spalle sono un’attrattiva troppo forte.
A Visegrad c’è un’orfana bellissima che si chiama Paša, qualche giovanotto ubriaco fa credere a Ćorkan che lei abbia lasciato per lui un fiore sulla strada, che sia innamorata insomma, di più, devastata dal languore per lui.
Ćorkan quando è sobrio non ci crede, giovane e bella com’è Paša, perché dovrebbe interessarsi a lui, ma quando è ubriaco crede a tutto, anche che una diciannovenne bella come acqua trasparente ami un vecchio arnese come lui.
Se ne parla per mesi, tutti ridono, Čorkan è sempre un po’ meno diffidente e sempre un po’ più convinto…fino a quando Paša va in sposa di Hadži Omer, un ricco cinquantenne, già sposato con Hadži Omerovica che però non poteva dargli un figlio.
Il giorno delle nozze Ćorkan è distrutto dal dolore e nessuno lo aiuta, anzi, gli riempiono il bicchiere e perpetuano l’ignobile scherzo.
“Che ingiustizia Çorkan, tu sei più giovane e più bello, senza contare che il suo cuore ti appartiene”…”E non sei neppure più povero!”, aggiunge uno più crudele degli altri.
“Tuo padre, si dice, era un nobile che ha lasciato per te un’infinita eredità a Brussa, un’eredità che i tuoi parenti ti tengono nascosta.”
Çorkan non ci crede, sa di essere orfano e disgraziato ma, appena beve, vede gli edifici bianchi e i lussureggianti giardini di Brussa e una cassa piena d’oro con la quale potrebbe strappare Paša a Hadži Omer che neppure la voleva.
Nel frattempo si fa l’alba, un’alba ghiacciata e rosa che fa risplendere il ponte sulla Drina come fosse costruito di diamanti.
“Nessuno sarebbe capace di camminare sul parapetto in una mattina come questa!”, urla qualcuno.
“Come no?”, biascica Ćorkan sputando rakija, saliva a catarro. “Io ho il coraggio!”
E senza aver finito di pensarlo, le sue scarpe sporche e pesanti poggiano già sullo stretto parapetto ghiacciato.
Sotto di lui scorre tumultuoso il fiume gelato e si increspa in una schiuma che prende il colore del primo sole pallidissimo.
Ćorkan inizia a muoversi, è lento e impacciato, barcolla, lo guardano i suoi compagni di bevute e lo guardano i bambini che si stanno incamminando per raggiungere la scuola, al di là del bosco.
Ad un certo punto Ćorkan chiude gli occhi e le sfavillanti piazze di Brussa si disegnano nella sua mente, si sente leggero come un ballerino e come un ballerino inizia a danzare, i passi si fanno corti, rapidi, sicuri, ritmati, agita le braccia, piega il busto e danza sul parapetto ghiacciato del ponte sulla Drina.
“In culo a tutto, in culo a tutti”, sembra dire ad ogni movimento Ćorkan.
Poi atterra sul ponte, come un ginnasta e una frazione di secondo dopo appare di nuovo quel che è: miserabile, tozzo, curvo e malmesso.
Neppure saprebbe dire cosa è successo.
Tutti lo festeggiano e, invece di andare a casa, tornano all’osteria a bere un ultimo bicchiere.
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Farid Rodriguez, il fantasista

6/11/2022

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Foto

Oaxaca è un luogo speciale, è la città de los murtos, il posto dove l’aldiqua e l’aldilà si mischiano, dove i lumini, i fiori arancioni e i bellissimi e spettrali trucchi sui volti dei vivi spaventano i bambini e attraggano le anime. Si racconta che nel giorno dei morti, chi ancora gode del ri,cordo dei proprio cari, magari di un piccolo altare dedicato proprio a lui, possa attraversare un ponte che congiunge i due mondi. Forse anche Farid Rodriguez voleva essere ricordato, certamente sapeva come erigere un ponte fra il mondo reale e quello della fantasia. Apre un profilo instagram, mette una foto con la maglia della juve e scrive “Felicissimo per il primo gol con questa maglia”. In pochi giorni passa da 10 a 10.000 followers e il suo feed si popola di foto. Allenamenti con la primavera bianconera, partite, compagni, selfie…insomma, in breve tempo, diventa una star. Nella sua città firma autografi, in Messico viene invitato alle trasmissioni televisive, dove parla del suo sogno, ad un passo, di giocare presto con Cristiano Ronaldo e Dybala, commenta e critica giocatori messicani, si sbilancia in pronostici ed analisi tecnico tattiche. Un giorno, il giornale messicano “El marcador” racconta che dopo aver fatto 10 goal con l’under 23 della juve, si dà per prossimo il suo debutto in prima squadra, ma non in campionato, addirittura in Champions League. Il ragazzo è pronto, anche se ha le spalle strette, come cantava DeGregori. A quel punto però il nostro fantasista, non nel senso del ruolo calcistico, proprio nel senso della fantasia, spara la bomba, dichiara di aver rifiutato il trasferimento al Getafe e al Rayo Vallecano, dove la dirigenza bianconera voleva mandarlo per farsi le ossa, per restare a giocare tutte le sue carte a Torino. Ma qui esagera, calcia troppo alto, finisce in fuorigioco, insomma, scegliete la metafora che preferite: dichiara di aver mosso i primi passi con la casacca del Fuerzas basicas del club lobos e poi con la maglia dei Pumas. Non aveva mai parlato del suo passato, sempre del suo presente. Ora ha parlato dei suoi trascorsi, per di più, dei suoi trascorsi messicani, è facile verificare. Nessuno di questo club centroamericani aveva sentito parlare di lui. Su internet ormai la notizia si diffonde, tanto da arrivare anche in Italia. La Juventus football club smentisce seccamente di aver mai avuto fra i suoi tesserati Farid Rodriguez. È come togliere una carta alla base del castello di carte. Crolla tutto. Bugie passate e più recenti, l’account instagram viene cancellato e la carriera da calciatore svanisce, senza per altro essere mai iniziata.

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