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La Moleskine di Michael Jordan

1/21/2021

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Mi ha sempre colpito la testa del campione.
Cosa succede là dentro.
Cos’hanno di diverso rispetto ad un sacco di giocatori forti, talentuosi, bravi che ci sono in giro? Cosa si illumina? A parità di mezzi, da dove e a quali risorse attingono i campioni per fare quello scatto in più, quel salto più alto di un millimetro, quel gesto che nessuno si aspetta, per chiedere al corpo quell’ultimo sforzo che non sembra in grado di offrire?
Micheal Jordan è stato forse il più grande campione fra i campioni e ascoltando la sua storia, la cosa che mi ha colpito di più è stata la sua moleskine.
Se ti piacciono le storie di campioni, ascolta quella del "Pibe de Oro"
Teneva un’agenda nel taschino, Jordan. E quando, nel corso della sua vita, qualcuno gli mancava di rispetto, lo sottovalutava o aveva per lui una parola storta, lui tirava fuori l’agenda e se lo segnava. Quella moleskine era una riserva di rabbia che se la usi bene diventa benzina.
Il 19 marzo del 1993, allo United Center di Chiacago, c’è Chicago Bulls contro Washington Bullets. I campioni NBA contro la peggior squadra della Eastern Conference.
Pochi stimoli, risultato scontato.
In quella partita però un giocatore dei Bullets, abbastanza mediocre in NBA, che si chiama LaBradford Smith, fa la partita della vita, infila 37 punti con 15/20 dal campo e un perfetto 7/7 in lunetta.
La sua squadra perde lo stesso, vincere coi Bulls in quegli anni era praticamente impossibile, ma la partita di Micheal Jordan, almeno rispetto al suo standard, è abbastanza opaca.
Si racconta che, rientrando negli spogliatoi, Labradford Smith, dica a Micheal Jordan: “Bella partita Mike!”
Mossa terribilmente sbagliata.
Jordan lo dichiara ai giornalisti, non apprezza di essere sfottuto da uno di 100 categorie inferiori alla sua, dichiara: “Quanti punti ha fatto oggi? 37! Bene, si prepari perché domani gliene faccio altrettanti solo nel primo tempo”.
Giorno dopo, back to back, si gioca a Washington e Jordan entra in campo, in una partita che non conta niente, a titolo già vinto, come se andasse in guerra. Si concentra quasi unicamente su Labradford Smith.
Infila i primi otto tiri consecutivi, si riposa un po’, rientra e arriva all’intervallo lungo a 36 punti, solo uno in meno di quanto promesso. Finirà a 47 punti totali, 126 a 101 per i Bulls, e Labradford Smith disintegrato, asfaltato, schiacciato, umiliata davanti a 20000 persone dalla furia di Micheal Jordan.
Viene da pensare: “l’arroganza si paga”.
Peccato che il povero Labradford Smith, scopriremo anni dopo in un’intervista dello stesso Micheal Jordan, non aveva detto niente.
Nessuna frase tipo: “Bella partita Mike!”, proprio niente.
Micheal Jordan aveva tirato su tutto quel polverone mediatico perché gli serviva rabbia per accendere il suo gioco, aveva bisogno di scrivere il nome di Labradford Smith sulla sua agenda, anche se non aveva fatto nulla, aveva bisogno, ora che la realtà non gliene dava, di trovare energie e risorse da qualche altra parte, per essere il migliore, ancora una volta.
Quello che succede nella complessa testa dei campioni è quello che serve per vincere, un universo di cose che prendono molte forme: una di queste forme è una moleskine fitta di appunti.

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La voce di Embankment

1/13/2021

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Tutti i giorni Margareth McCollum arriva alla stazione di Embankment.
È una stazione importante della metropolitana di Londra, è servita dalla Bakerloo, Circle, District e Northern Line.
Ma lei non va da nessuna parte, o almeno non sempre. La maggior parte delle volte se ne sta seduta su una panchina, per un po’. Poi si alza e se ne va, senza aver preso nessun treno.
È una bella signora, molto british, la pelle chiara, un paio di occhialetti e una sciarpa colorata. Quando a Londra tira il vento, si sente, specie in autunno.
Ma non è il vento che le inumidisce gli occhi in una mattina del novembre del 2012.
Il treno arriva, si aprono le porte e una voce metallica, come sempre, dice di fare attenzione allo spazio fra il treno e il marciapiede, mind the gap. Between the train and the platform.
Ma non è la solita voce.
Non è quella che c’era fino al giorno prima, non è quella che ascolta da 5 anni a questa parte, non è quella che gli è stata cara per metà della sua vita.
La signora scrive alla Tfl e chiede cosa sia successo, perché la voce sia cambiata.
La storia, commovente, delicatissima, poetica, è questa qua.
La voce della metropolitana di Londra apparteneva a Oswald Laurence, marito di Margareth McCollum, scomparso a luglio del 2007.
Non era mai stato un attore particolarmente celebre ma era riuscito a fare qualcosa di ben più grande: aveva fatto innamorare una donna, che pare sia una cosa che fanno in molti, ma non è così, non fatevi ingannare, in tanti stanno con una donna, hanno un rapporto, si sposano, hanno figli, divorzi, natali, gite, regali, litigi, abbracci.
Ma pochi riescono a toccare il cuore così tanto da far sì che una donna se ne vada lì, alla stazione di embankment, un giorno sì e l’altro anche, solo per sentire una voce.
Mind the gap, attenti allo spazio, lo spazio che c’è fra questo e quell’altro mondo che non è mai apparso così sottile.
 
Il signor Nigel Holness, direttore della compagnia che controlla la Tube, racconta di essere rimasto talmente colpito dalla lettera di questa signora, da farle avere il nastro con la registrazione originale e non solo, di aver fatto ripristinare il vecchio annuncio alla stazione di Embankment.
Fateci caso, se fate un giro a Londra, quella sarà l’unica stazione in cui sentirete una voce diversa, quella di Oswald Laurence che vi ricorda di fare attenzione, che lo spazio fra questo e quell’altro mondo è sottile come un ricordo.

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Diego Armando Maradona

1/5/2021

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​​Diego Armando Maradona è stato il più grande calciatore di tutti i tempi, un rivoluzionario e uno dei più grandi artisti del ‘900. Se vi sembra che esageri, dobbiamo ridiscutere il concetto di gioia.
 Una vita intensa come la sua non ho il tempo di raccontarla per intero, quindi per raccontarvi Maradona, vi racconto una storia d’amore e una partita.
Calcio d’inizio.
Maradona nasce fra gli ultimi, a villa Fiorito, estrema periferia di Buenos Aires, dove vive non c’è l’acqua corrente, l’elettricità va e viene e da mangiare ce n’è poco.
Cresce nella retorica latinoamericana del grande liberatore, di Simon Bolivar, di un uomo che arriva e ridà dignità ad un popolo.
A neanche 16 anni, gioca con l’argentinos juniors, poi rinuncia a più soldi per andare al Boca perché è la squadra che tifa suo padre. Tenetelo a mente perché nella sua vita, le sue scelte, magari ingenuamente, ma sono sempre state fatte con il cuore.
Poi va a Barcellona, non trova un grande ambiente, lo chiamano Sudaka, che è un modo dispregiativo per chiamare i sudamericani, in una partita contro il Bilbao gli spaccano una caviglia. Non sta più bene in Catalogna. Vuole andar via.
È molto giovane ma è considerato il giocatore più forte del mondo, el pibe de oro.
Vuoi ascoltare la storia di un altro numero 1? CLICCA QUI
Ma la squadra che lo vuole in Italia, allora è una squadra di metà classifica che non ha mai vinto niente.
Pur di andare via da Barcellona accetta e quando arriva a Napoli, beh, quando arriva a Napoli è amore.
80000 persone allo Stadio San Paolo affollano gli spalti solo per vederlo palleggiare due minuti. Lui guarda quella gente e la riconosce, è la sua gente.
La gioia, inspiegabile, trabordante, travolge una città. Ve l’ho detto, è amore, non si spiega, si sente.
Adesso è lui Simon Bolivar. Non è possibile che la Juve, l’Inter, il Milan, vadano a Napoli e vincano con facilità. Quella gente non se la merita un’umiliazione così. Lui, consapevolmente o no, si sente investito di questa responsabilità.
Napoli è una città che ama il mito, ha bisogno di miti, di eroi, di liberatori. Eccolo lì, il sole del sud illumina sulla schiena azzurra la diez de cuero blanco.
Sai cos’è la speranza? Il riscatto? La gioia? Vuol dire che tu pensi che nessuno ti veda e poi invece ci sei, esisti, sei forte, puoi battere tutti, e il giocatore più forte del mondo ce lo hai tu, perché ti ha scelto e pure se gli altri hanno più soldi, lui gioca per te, combatte per te, perché è parte di te, come un sentimento. Non te lo può rubare nessuno. Questo è Maradona per Napoli.
Lui, nemmeno lo sa, ma diventa Capitano non solo di una squadra, diventa capitano di una città, di un popolo.
E non è un caso se Napoli ha un riscatto veramente, mica solo nel calcio: cresce, si emancipa, migliora, gode, segna e vince.
“Che cosa vi siete persi” scrivono i napoletani davanti al cimitero il giorno del primo scudetto.
Non c’è da stupirsi quindi se di Maradona si conservano reliquie, si costruiscono altari, se esiste una religione dedicata a Maradona.
Non è stato certo un santo ma non so quanti santi hanno distribuito tanta gioia.
Fine primo tempo.
Argentina-Inghilterra. Stadio azteca di città del Messico. Quarti di finale dei campionati mondiali di calcio del 1986.
Centinaia di chilometri più a sud, gli inglesi occupano le isole Falkland, dicono loro, Malvinas, dicono gli argentini.
È una guerra assurda, inventata 4 anni prima dal generale Leopoldo Galtieri, l’allora presidente, per risvegliare un sentimento nazionalistico e mantenere il potere, ma Maradona non lo sa.
È di nuovo Simon Bolivar.
Quindi fa due gol che meglio di ogni cosa lo rappresentano.
Prima segna di mano, la mano de dios, antisportivo? Sì, ma è uno scugnizzo, ha fatto il pacco all’Inghilterra. Dopo fa quello che è considerato il più bel gol della storia del calcio. Salta tutta l’Inghilterra e segna, come a dire, mano o non mano, vinco anche da solo.
 
Non lo so, tra tutti i sogni che avevo da bambino, il più grosso aveva la sua faccia e il suo numero. Quindi, io lo ringrazio…

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