Arirang è una canzone coreana che si canta quando si è molto tristi ma anche quando si è molto felici. Kim-Ki-Duk invece è stato una grande regista sudcoreano. Quello di Ferro3 per capirci. Tipico sudcoreano di città: jeans, maglietta, cappello da baseball. Nel 2007 sul set di Dream un’attrice deve recitare la scena di un’impiccagione, il meccanismo non funziona e per poco non ci rimane davvero. Questo evento sconvolge Kim-Ki-Duk, è devastato dal pensiero di aver quasi ucciso un essere umano nel tentativo di affermare sé stesso dal punto di vista artistico. Se ne scappa in montagna dove resterà solo per mesi. E qui fa qualcosa di eccezionale e di mai visto. Non solo riprende sé stesso nelle faccende quotidiane come scaldarsi, mangiare, tagliare la legna, costruirsi una macchina del caffè ma documenta le sue ansie, la sua disperazione, i suoi pianti, i suoi silenzi e intreccia a questo piccoli frammenti di finzione per superare la realtà e andare oltre, il tutto con la sua voce fuori campo che commenta ogni cosa. Ad un certo punto parla con la propria ombra, confessa l’inconfessabile, ci sono notti spietate, terribili, in cui canta, singhiozza, trema. Addirittura si ripete la scena di qualcuno che bussa alla sua porta e lui apre non c’è nessuno, solo orme che non conducono da nessuna parte. Da giovane fece il fabbro e il documentario si conclude con lui che fabbrica da zero una pistola funzionante, parte per la città, non vediamo nulla, sentiamo qualche sparo, non si capisce, poi torna in montagna, monta la pistola su un cavalletto e se la punta contro, con una cordicella tira il grilletto e il documentario finisce. Per la cronaca, nessuno è morto, neanche lui. Si tratta solamente di una pazzesca opera artistica, quello che al tempo, un critico di Screendaily, definì “Il film d’autore definitivo”. Un film di un coraggio e si una sincerità disarmante.
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Dicembre 2022
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