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L'uccellino azzurro di Bukowski

5/25/2022

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“Ho anche un debole per le donnacce, quelle che si ubriacano e bestemmiano, che hanno le calze molli e il trucco sbavato. Mi interessano di più i pervertiti che i santi. Mi rilasso con gli scoppiati perché anche io sono uno scoppiato.”
Questa è una frase di Charles Bukowsky, lo scrittore maledetto più citato dei social.
A me il vecchio Hank mi ha sempre spezzato il cuore, forse perché anch’io sono uno scoppiato, non lo so.
Mi è sempre sembrato un vecchio cane rognoso che, nonostante avesse preso tante botte, conservava gli occhi dolci.
Mi piace perché era tutto sbagliato, diceva sempre la cosa sbagliata, era sempre fuori posto, sgradevole, aggressivo, quello che hai paura di invitare ad una festa perché potrebbe pisciarti nel vaso della pianta del salotto, davanti a tutti. Cosa che ha fatto, se non ricordo male, in diretta tv.
Ma la storia legata a Bukowsky che mi piace di più è quella del suo uccellino azzurro.
Tutti hanno un uccellino azzurro che canta nel cuore, è quello che ti fa sentire l’entusiasmo delle cose che stanno per succedere, l’estate che inizia, il fremito dopo che una donna ti sorride, la voglia di riabbracciare un vecchio amico. La bellezza della vita insomma.
Ce l’aveva anche Hank e cantava.
Ma poi gli è capitato un padre che, dopo che gli aveva fatto tagliare il prato, controllava che tutti i fili d’erba avessero la stessa altezza e, se non era così, lo prendeva a cinghiate.
Poi, sempre il padre, trovò dei fogli con i suoi racconti in un cassetto, non gli piacquero, e lo cacciò di casa.
Lo odiava perché parlava solo di soldi, lo odiava perché gli dava sempre ordini.
Il suo uccellino azzurro ha iniziato a nascondersi dentro, in fondo, perché aveva paura del mondo e della vita.
Per 50 anni Bukowsky fu un senzatetto, lavorava lo stretto necessario per comprare le sue lattine di birra e poco altro. Passava le notti a battere a macchina, scrivere e vomitare abbracciato al cesso.
Cicatrici dentro e cicatrici fuori, lo rendevano brutto, nei bar glielo urlavano, si buttava dentro risse improbabili, ne usciva ammaccato e stordito, qualche volta elemosinava un po’ d’amore da qualche puttana vecchia e stanca, spesso andava in bianco, qualche volta lo facevano toccare per pietà.
Il suo uccellino azzurro cantava sempre meno e si nascondeva sempre più a fondo, in certi posti scuri e umidi dell’anima che neppure sappiamo di avere.
Era così radicale nel giudicare la società intorno a lui che non poteva che finire ai margini, isolato, spesso deriso, un relitto, un avanzo, solo un’altra figura triste accartocciata sul marciapiede di una periferia americana.
Sputava sul lavoro che, mentre arricchisci qualcun altro, ti abbruttisce; sputava sui perbenisti dalle vite scontate, piatte e vuote; sputava sulla stupidità della guerra, sputava sulle convenzioni, sulle etichette, sulla retorica, sul patriottismo, sulle religioni, sullo Stato, sugli occhi spenti delle signore per bene.
Il suo uccellino azzurro ormai era muto, lontanissimo, anestetizzato eppure tremante.
Poi, nel 1969, quando ha 49 anni, arriva un signore che si chiama John Martin, ha una piccola casa editrice, “La black sparrow”, gli offre 100 dollari al mese per tutta la vita, per scrivere.
Non gli sembra vero.
Ha così paura che sia una bugia che in un mese scrive “Post Office”, il romanzo che lo renderà famoso.
Un minuscolo raggio di sole filtra, anche se 50 anni di dolore non c’è più il tempo di curarli, ma un flebile raggio di sole arriva fino alle remote regioni dove l’uccellino azzurro sta agonizzando.
E lui lo sa, gliel’ha scritto. Ed è questo che spezza il cuore.
 
Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire,
ma con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani dentro, non voglio che
nessuno ti veda.
Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma gli verso addosso whisky e aspiro
il fumo delle sigarette
e le puttane e i baristi
e i commessi del droghiere
non sanno che lì dentro c'è lui.
Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani giù, mi vuoi fare
andar fuori di testa?
vuoi mandare all'aria tutto il mio lavoro?
vuoi far saltare le vendite dei miei libri in Europa?
Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
Gli dico: lo so che ci sei,
non essere triste
poi lo rimetto a posto,
ma lui lì dentro un pochino canta,
mica l'ho fatto davvero morire,
dormiamo insieme così
col nostro patto segreto
ed è così grazioso da far piangere
un uomo, ma io non piango,
e voi?
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L'estate del '92

5/19/2022

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Nell’estate del 1992 ero poco più di un bambino e l’estate era la stagione bellissima delle giornate a giocare a pallone, del mare, delle notti miti, dell’odore intenso dei campi, dei fossi, dei fiori.
Da bambino vedi solo la parte luminosa, non sai che dove il sole batte fortissimo, ci sono anche ombre scurissime, nere come gli incubi.
C’era una guerra e io non lo sapevo. Ma neanche tutti i grandi, gli adulti, forse lo sapevano.
È una storia difficile da raccontare quella di oggi, non solo perché è triste, non solo perché è nostra, di tutti noi, ma pure perché per raccontare bene una storia dovresti conoscerla dettagliatamente. Ed invece in questa, a 30 anni di distanza, mancano ancora nomi certi, spiegazioni, risposte e pure un’agenda rossa, piena di appunti, pare, della storia sotterranea del nostro Paese, quella da non dire.
Il 23 maggio del 1992 il giudice Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, saltarono in aria con 500 chili di tritolo all’altezza dell’uscita autostradale di Capaci.
Non ho un ricordo limpido. Ricordo solo un gran silenzio dopo la notizia al telegiornale.
Non era il primo magistrato che la mafia uccise. Andando a ritroso in una macabra conta si arriva almeno al 1971, Pietro Scaglione, che aveva messo il naso in mezzo alle storie ingarbugliate di Salvatore Giuliano e dei corleonesi che stavano iniziando a crescere. E continueranno a crescere. Quando nel ’92 Giovanni Brusca preme il pulsante del detonatore sono potenti come lo Stato, dentro lo Stato.
Eppure quando si sente quel botto, all’improvviso non si può più negare che la mafia c’è, fa rumore, fa paura e uccide.
57 giorni dopo, solo 57 giorni dopo, il 19 luglio Paolo Borsellino fa visita a sua madre che vive in un palazzo di via D’Amelio, a Palermo.
Questa volta i chili sono 90, Semtex-H, messi dentro ad una FIAT 126, parcheggiata poco distante.
L’esplosivo è arrivato in città qualche giorno prima, Borsellino non era stato informato, lo seppe per caso, sapeva che a Palermo era arrivato il tritolo destinato a lui.
Oltre al giudice Borsellino moriranno Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo LiMuli, Walter Eddie Cosima e Claudio Traina.
Di quel giorno di luglio invece ho ricordi nitidi. Eravamo appena tornati dalle vacanze e si fece di nuovo silenzio e ricordo un’inspiegabile sensazione. Come se, non solo fossero finite le vacanze ma, nonostante fossimo a luglio, fosse finita pure l’estate, pure il sole, pure le partite a pallone, pure l’odore dei campi e degli alberi.
Appartenevo ancora a quella che Borsellino, nel suo ultimo discorso, definì “le giovani generazioni”, e, secondo lui, ero più adatto degli adulti a sentire “la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità.”
In quel momento, anche se probabilmente non sarei stato in grado di descriverlo, la differenza fra puzza e profumo, mi pareva evidente.
Nell’auto di Paolo Borsellino rimase una borsa che conteneva un’agenda rossa.
A 30 anni di distanza non sappiamo chi l’abbia presa e quali appunti contenesse.
E a 30 anni di distanza, anche se non appartengo più ad una giovane generazione, mi chiedo a che punto stia la limpidezza dell’aria e mi trovo a costretto a pensare che, se il vento di libertà si genera dalla verità, siamo ancora immersi in un’aria inquinata.
Penso pure però ad un’altra frase, di Falcone questa volta, che mi piace ricordare: “La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni".
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Mata Hari

5/14/2022

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Se inventarsi la vita è un’arte, una delle più grandi artiste di tutti i tempi è stata Margaretha Geertruida Zelle.
La prima magia la fanno i suoi occhi e la sua pelle, così scuri che in olanda sembrano venire da un altro pianeta. Ha uno strano magnetismo con gli uomini eppure, la prima volta, si sposa per corrispondenza, con un ufficiale in convalescenza dalle colonie d’indonesia: il capitano Rudolph Mac Leod.
Con lui riparte proprio per Giava e ha un figlio prima, Norman, e una figlia poi, Louise.
La seconda magia, in terra di magia, avviene a Medan, costa orientale di Sumatra. Qui assiste, all’interno di un tempio, ad una danza locale e ne rimane rapita.
Ma è ancora presto perché l’incanto si manifesti, ci saranno giorni di dolore in mezzo, come la misteriosa perdita del figlio, forse avvelenato da una domestica.
Tornati in Europa, il matrimonio scricchiola fino a cedere, Louise è affidata al padre, Margaretha va a Parigi, fa la modella, si propone ai teatri ma le cose non vanno molto bene fino a quando non conosce il signor Molier, che ha un’importante scuola di equitazione e circo e lei a Giava ha imparato a cavalcare, un’amazzone è merce rara.
Una sera poi, a casa del signor Molier, si esibisce casualmente in una danza giavanese, o qualcosa di simile, e una scintilla si accende. Presto diventerà un incendio.
Secondo il signor Molier, quella danza era quella delle sacerdotesse del dio Shiva.
Da lì inizia ad esibirsi nelle case delle persone più ricche e in vista della città, in poco tempo la vogliono anche al Theatre Marigny, al Trocadéro, al Café des Nations ma è quando si esibisce a place de Jena che monsieur Guimet le suggerisce di cambiare nome, il suo è troppo borghese.
Così, il 13/3/1905 nasce una stella che si chiama “Occhio dell’alba”, “Sole”, in malese, cioè nasce Mata Hari.
E qui, lei capisce, che lo spettacolo va fatto sempre, non solo sul palco e inizia ad inventare e ad inventarsi.
“Sono nata a Giava e vi ho vissuto per anni» - racconta ai giornalisti, «sono entrata, a rischio della vita, nei templi segreti dell'India, ho assistito alle esibizioni delle danzatrici sacre davanti ai simulacri più esclusivi di Shiva, Viṣṇu e della dea Kālī, persino i sacerdoti fanatici che sorvegliano l'ara d'oro, sacra al più terribile degli dei, mi hanno creduto una bajadera del tempio, la vendetta dei sacerdoti buddisti per chi profana i riti è terribile, conosco bene il Gange, Benares, ho sangue indù nelle vene.”
Tutto falso ma intanto il mito esplode.
Danza all’Olympia, tournèe in Spagna, Operà di Monaco, Giacomo Puccini è un suo ammiratore, escono due sue biografie, una che la esalta, del padre che a sua volta si inventa cose per nobilitarsi, una denigratoria, dell’avvocato del marito.
Lei ovviamente avvalla la prima che la racconta discendente di principi, frequentatrice di Marajà, guerriera che ha abbattuto tigri a mani nude, come la pelliccia che indossa dimostrerebbe.
In realtà l’ha comprata ad Alessandria d’Egitto.
Il teatro alla Scala di Milano, Montecarlo, e anche Roma, Napoli e Palermo ma qui ballando il flamenco, perché viene fuori che ha sangue anche gitano anzi, avrebbe viaggiato a lungo in Spagna, dove un torero, innamorato di lei, si era fatto uccidere nell'arena, disperato per non essere corrisposto. Ecco perché conosce così bene le danze spagnole.
Mille bugie, come mille erano i veli traslucidi che si toglieva nella sua danza fino a rimanere quasi nuda con i seni coperti da due coppette di bronzo che, si dice, dovessero coprire piccoli seni che la imbarazzavano. Ma chissà se anche questo è vero o no.
Nulla sembra poterla fermare…fino a quando uno studente serbo non decide di sparare al principe Francesco Ferdinando e la prima guerra mondiale mette fine alla belle epoque.
Ma una donna così non ha problemi a reinventarsi.
Mentre l’esercito tedesco invade il Belgio per la sua famosa “operazione a tenaglia”, MataHari parte, dopo molte vicissitudini, torna in Olanda e qui viene contattata dal console tedesco Alfred von Kremer che le propone di fornire informazioni al governo tedesco sull'aeroporto di Contrexéville, presso Vittel, in Francia, dove MataHari poteva recarsi per far visita ad un suo ennesimo amante, il capitano russo Vadim Masslov.
Mata Hari, diventa un agente segreto dello Stato tedesco, istruita in Germania da Fräulein Doktor, agente H21, codice AF44.
Ma qui forse esagera, per avidità o spirito di avventura…inizia a fare la spia anche per il governo francese. Accetta la proposta del capitano Georges Ladoux, controspionaggio, per una cifra spropositata, si dice un milione di franchi. Mata Hari sta facendo ufficialmente il doppio gioco.
la mattina del 13 febbraio 1917 fu arrestata e rinchiusa nel carcere di Saint-Lazare.
Il processo fu una sfilata di soldati, vecchi amanti, trafficoni, teatranti, agenti segreti.
Il 15 ottobre 1917, il capitano Thibaud la informò che la domanda di grazia era stata respinta. Lei si vestì con la consueta eleganza, cappello in paglia di Firenze con veletta, un mantello, guanti. Scrisse ancora tre lettere che la direzione del carcere non spedì mai: una a sua figlia Louise, una al capitano Masslov, una all’ambasciatore olandese Cambon.
Fu scortata al castello di Vincennes in un freddo mattino di parigi con la nebbia che si alzava dalla Senna, fu salutata dal plotone, ricambiò con un lieve gesto del capo, rifiutò la benda.
Dei 12 colpi solo 4 la colpirono: uno alla coscia, uno al ginocchio, uno le sfiorò la parte sinistra del corpo, uno le trafisse il cuore.
Il maresciallo Pétey diede alla nuca un colpo di grazia che non serviva più.
Il corpo di una delle più grandi dive del ‘900 fu gettato in una fossa comune.
La prima guerra mondiale fu anche QUESTO. Leggilo o ascoltalo QUI! 

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Il bastone dei miracoli

5/6/2022

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Sei dei dodici figli di Licurgo Caminera stanno tornando a casa, come Ulisse ad Itaca.
E non è un paragone casuale. Il vecchio contadino anarchico ha sempre avuto una passione arroventata per la letteratura classica e ha chiamato i suoi figli con i nomi dei grandi eroi del passato: Achille, Ercole, Penelope, Antigone, Elena.
Qualcuno se lo sono portati via i venti maledetti della vita, le febbri infantili o le infezioni dell’anima ma quelli che sono rimasti, ora, come i vecchi patriarchi, li vuole tutti attorno a sé perché, proprio come i vecchi patriarchi, c’è un ultimo dono da regalare loro, il più prezioso. Non oro, greggi o poderi ma le parole di una saggezza ancestrale e il filo per tenere insieme il loro sangue. Licurgo consegna loro sei buste, all’interno delle quali c’è una parte di un racconto che, per anni, ha scritto per loro e anche un po’ per sé. Ma dovranno leggerlo insieme, gli uni agli altri, questo è il modo per trasmettere la conoscenza, attraverso le parole comuni e il contatto dei corpi, questo è il modo per rimescolare il sangue, questo è il modo che il vecchio ha scelto, l’unico che è disposto ad accettare, per essere ricordato e commemorato.
Ora che tutto è stato detto e dato, può chiudere gli occhi. I figli scopriranno, con gli occhi incantanti dei bambini di fronte alle favole, della storia del bastone dei miracoli, che conserva il potere di donare una buona morte ma anche ricchezze e potere. Per colpa di queste sue ultime capacità è stato anche causa di grande dolore e infinita miseria, specie quando si è intrecciato al malsano desiderio di possederlo di Paolo Anzones, noto Muscadellu.
Nel legno si sono come intagliati migliaia di segreti che i fratelli ascoltano dalle voci dei fratelli davanti al fuoco che scoppietta, cucendo insieme storie antichissime insieme all’ordito della più moderna storia della loro famiglia.
Ora, fra i segreti del bastone dei miracoli, c’è anche la loro storia, quella di un contadino anarchico e dei suoi figli con nomi di eroi.
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Delitto e castigo

5/6/2022

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Fa un caldo insopportabile a Pietroburgo, insopportabile come l’occhio avido della vecchia. Ingorda, avida e meschina. Se solo avessi i suoi soldi farei del bene, il suo sangue sarebbe versato per una buona ragione. Saprei gestirla, sono un superuomo, così mi sento, come Napoleone. Pensate forse che se Newton o Keplero, per illuminare l’umanità, avessero dovuto uccidere un uomo, o un centinaio di uomini, non ne sarebbe valsa la pena?
Questi pensieri affollano la mente di Rodion Romanovič Raskol’nikov, un attimo prima di agire.
Trova il coraggio e uccide la vecchia usuraia. In mezzo ci finisce anche la sorella, donna mite, ma d’altro canto, è un prezzo insignificante per il bene che si è ripromesso di fare. Solo che, poco dopo, una febbre cerebrale lo costringe a letto e qui, un tarlo inizia a scavargli nel cervello. Angoscia, rimorsi, pentimenti, tormenti intellettuali e soprattutto una desolante, inarginabile, sconfinata solitudine in cui il segreto del delitto lo aveva costretto. E se lo scoprissero ora? I suoi nervi, già compromessi, si deteriorano ogni minuto che passa. Il delitto era stato compiuto ma il castigo non era la galera, era lui stesso, affatto superuomo. In questo stato incontro Sonja, dagli occhi belli e il cuore puro, custode di una fede solida e profonda. Nonostante sia costretta a prostituirsi per mantenere la matrigna tisica e i fratellastri, Sonja è capace di donare una luce di speranza a chiunque la conosca, una luce che spazza via il nichilismo di Raskol’nikov. Si costituisce, viene mandato probabilmente a Omsk, sulle sponde del fiume Irtys, in un campo di lavoro, siberia occidentale. Sonja lo segue.
Il vero castigo di Raskòl'nikov non è il campo di lavoro a cui è condannato però, ma il tormento che, una volta penetrato dentro di lui, non lo abbandona mai, lo tormenta e lo lacera.
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L'albero

5/6/2022

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Questa è una storia che si intreccia ad un’altra che ho già raccontato.
Appartiene alla mia terra e ad un particolare fazzoletto di terra, di quelli che hanno poteri magici, perché, checché se ne dica, ci sono angoli del mondo che conservano, trattengono, trasmettono qualcosa. Prati diversi da altri prati, pietre diverse da altre pietre, orizzonti diversi da tutti quelli che puoi guardare.
Uno di questi si chiama “Benedicta”. È un posto bellissimo, in mezzo all’appennino, fra la Liguria e il Piemonte, se alzi gli occhi puoi vedere volare i falchi, è un posto dove arriva il vento di mare, un luogo che mischia la dolcezza dell’erba al colore aspro delle rocce e che sembra illuminato da una luce particolare. Sarà che rimbalza su una terra rossastra che, come ha scritto qualcuno che aveva voglia di poesia, è ancora intrisa del sangue giovanissimo di molti ragazzi che nella primavera del 1944 si erano dati alla macchia proprio in quei boschi aggregandosi a due brigate partigiane.
Ci furono degli scontri la sera del venerdì Santo, alcuni dei più inesperti si nascosero dentro un santuario che fu minato e fatto saltare in aria con loro dentro. In seguito i tedeschi rastrellarono 75 ragazzi che furono privati dei loro documenti, fucilati a gruppi di 5, e gettati in una fossa comune. Questa è la storia che ho già raccontato non accennando al fatto però, che questo posto magico è riuscito a prendere un inferno e a cavarne un sorprendente silenzio, una pace luminosa, un sacrario composto da poche pietre, bassorilievi discreti, l’elenco dei nomi, un bosco che restituisce una serenità che non so spiegare, che ti fa pensare a questa strana cosa che ci siamo abituati a chiamare vita e a ben pensarci è una matassa di gioia e morte, pace e dolore. E non sai mai dove comincia una cosa e finisce l’altra, cosa genera cosa, come tutto questo groviglio è collegato.
La storia nuova invece, che si intreccia con questa, è quella di un mio amico che, di tanto in tanto, viene da queste parti. Si siede poco più in là del sacrario, davanti ad un albero e guarda un prato diverso da altri prati, pietre diverse da altre pietre e soprattutto un orizzonte che gli alleggerisce un po’ il cuore. A lui è capitato di perdere un figlio molto giovane e dice che al cimitero non ci va. Gli fa tristezza forse o non ci trova la pace che cerca, magari non c’è abbastanza luce o non tira il vento che dovrebbe tirare. Ha preferito quindi piantare un albero qui. Un albero che porta il nome di suo figlio e cresce, i boccioli sbocciano ogni primavera, le foglie cadono ad ogni autunno, suonano verdissime quando in estate soffia lo scirocco e i rami sorreggono la neve in inverno. E qui riesce a sedersi e, forse, come me, sente un piccolo soffio di serenità che non sa spiegare. Forse anche lui pensa a questa strana cosa che ci siamo abituati a chiamare vita e che, se ti ci soffermi, è una matassa dolorosa che però, in un modo che non si capisce, se traffichi per sbrogliarla, è capace di legare pace, dolore, gioia e malinconia nello stesso nodo.
​E non capisci mai dove comincia una cosa e dove ne finisce un’altra, quali fili intrecciati ci siano, come questo garbuglio è collegato. Io non lo so e probabilmente neanche lui ma quando si siede all’ombra di quell’albero magari ci pensa, se lo domanda, e siccome questo posto è un po’ magico perché ha saputo conservare, trattenere, assorbire la storia grande, quella con la S maiuscola, magari è capace anche di conservare, trattenere, assorbire la storia più minuta, quella che non si scrive sui libri, quella di ognuno di noi e siccome questo posto un po’ magico sa pure rilasciare, trasmettere, far evaporare, allora può darsi che, stando attenti, qualche risposta si possa anche intuire.
QUI trovi l'altra storia alla quale faccio riferimento!

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La fattoria degli animali

5/6/2022

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Nel cuore della verdissima Inghilterra c’è Willingdon e poco fuori dalla cittadina c’è la fattoria di Mr. Jones. Qui accade qualcosa di straordinario, mai visto prima. Gli animali, stanchi di essere sfruttati, guidati da Palla di Neve e da Napoleone, si ribellano e la rivolta ha un tale successo che il fattore viene cacciato e la fattoria viene gestita autonomamente dalle sue bestie, ora non è più la fattoria di mr. Jones, ma la fattoria degli animali. Si stendono sette comandamenti il più importante dei quali è: “tutti gli animali sono uguali”. Palla di neve insegna a tutte le bestie a leggere e a scrivere, Napoleone educa i cani ai principi dell’animalismo. Sono loro due ora, due maiali, a guidare la fattoria.
Ma il signor Jones non si è arreso e torna in armi, con altri signorotti, ma gli animali oppongono una fiera resistenza e vincono ancora seppur a costo di gravi perdite. Palla di neve vuole modernizzare la fattoria ed espone il suo progetto: la costruzione di un mulino a vento ma Napoleone non è affatto d’accordo e fa assalire il suo compagno dai cani, si dichiara comandante supremo e cambia regime, abolisce il comitato e pone i maiali a capo di tutto. inoltre, facendosi aiutare dal suo amico Clarinetto, diffonde una falsa notizia, secondo la quale Palla di neve stava tramando per rimettere sul trono il fattore Jones.
Cambia l’inno e fa comporre un canto autocelebrativo che tutti dovranno imparare e se qualcuno dichiara di aver aiutato o di essere stato amico di Palla di Neve lo fa sbranare dai cani. Napoleone inizia a fare politica estera, tratta con un fattore vicino, Frederick, ne segue un’altra guerra, la demolizione del mulino, morti e feriti, fra i quali il cavallo Gondrano, venduto da Napoleone al macellaio in cambio di una partita di whisky. Passano gli anni, il signor Jones invecchia e muore e la condizione alla fattoria, invece di migliorare, sembra tornata a quella dei suoi tempi. Non ci sono più 7 comandamenti, ne è rimasto solo uno: "Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri" e anche la vecchia massima "Quattro gambe buono, due gambe cattivo" è stata sostituita gradualmente da "Quattro gambe buono, due gambe meglio" perché i maiali hanno iniziato a camminare su due zampe, ad indossare abiti sgargianti, a dormire su letti enormi e morbidi e a sbronzarsi di whisky quasi tutte le notti. Una sera, attorno ad una finestra illuminata della fattoria sono radunati tutti gli animali che sembrano sbirciare all’interno.
Quello che vedono è Napoleone che gioca a poker con alcuni fattori locali, stanno festeggiando, hanno appena sancito un’alleanza.
Poi Napoleone cala un asso di spade e lo stesso fa anche un tale Pilkington. Iniziano a litigare. Le bestie si guardano confuse, non riescono più a distinguere chi è il maiale e chi è l’uomo.
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I 4 giorni della "Terza Onda"

5/6/2022

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Ron Jones è un professore di storia, insegna alla Cubberley High School, Palo Alo, California e ha un cruccio. Nonostante tutti i suoi sforzi, i suoi allievi non riescono a comprendere come sia stato possibile che il nazismo, invece di suscitare scandalo e rigetto, abbia attecchito nell’opinione comune tedesca e di come l’ignoranza potesse essere usata come scusante per l’Olocausto. E allora, al professor Jones, viene in mente di fare un esperimento. Lunedì 3 aprile 1967 introduce piccole regole su come sedersi ai banchi, in modo da non perdere tempo, in modo da essere, dopo 30 secondi dal trillo della campanella, tutti seduti senza fare rumore e disposti all’ascolto. Martedì 4 aprile organizza le cose in modo che i partecipanti al suo corso si sentissero parte di una comunità con regole rigide e un progetto importante a cui diede il nome di “Terza onda”. Stabilisce un saluto con il quale i ragazzi potessero riconoscersi e automaticamente escludere coloro che non facevano parte di quella cerchia. Gli allievi iniziarono a salutarsi così anche fuori dalla classe. Il terzo giorno gli studenti passarono da 30 a 43. Si verificò un drastico miglioramento nelle loro abilità accademiche, sospinte da una motivazione fuori dal comune. Il professor Jones stampò alcune tessere per i membri, ad ognuno fu assegnato un compito speciale che coinvolgeva tutti a pieno titolo nel progetto. Fu ideato un rito di iniziazione per i nuovi membri e si istituì un picchetto per impedire l’entrata ai non allineati. Il movimento contava già 200 membri, molti dei quali, spontaneamente, riferivano al professore come e quando altri membri non si attenevano alle regole.
Il quarto giorno, il professor Ron Jones decise di porre fine all’esperimento iniziando a temere che gli sfuggisse di mano. Dichiarò che “La terza onda” era un movimento più largo, a carattere nazionale e che, nel pomeriggio, proiettato su uno schermo, tutti avrebbero potuto assistere ad un messaggio del leader supremo.
Tutti si presentarono puntuali all’appuntamento. Sullo schermo non passò però nessuna immagine. Trovarono solo il professore che comunicò loro che avevano appena preso parte ad un esperimento sul nazismo e che tutti loro, studenti che fino alla settimana precedente, non riuscivano a comprendere come l’orrore possa accadere, avevano volontariamente creato un senso di superiorità che i cittadini tedeschi ebbero nel periodo della Germania nazista. A quel punto proiettò sullo schermo un documentario sul terzo Reich.
L’esperimento aveva dato i suoi frutti avvelenati nel giro di 4 giorni.
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La vertigine

5/6/2022

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Era un bambino felice, in un modo indistinto, come lo sono i bambini, felici di tanti pezzetti particolari di felicità che neanche si curano di mettere in ordine.
Certo, in mezzo a quei pezzetti, c’era il cinematografo, ad essere precisi, il cinema centrale, il buio della fredda campagna intorno, il buio della sala, il velluto delle poltrone a ribalta, il fumo delle sigarette, la liquirizia, le caramelle colorate e i semi di zucca, le giacche sporche di grasso dei meccanici, il talco borato Paglieri.
Al bambino piaceva stare lì, a guardare i film che le zie lo portavano a vedere per avere una scusa buona per uscire con i fidanzati e baciarli.
Lui, 5 o 6 anni, appena appena distingueva qualche parola dei cartelloni, ma l’accordo con le zie era ragionevole: un film di spadaccini e un film d’amore, un film di antichi romani e un film d’amore, un vecchio western e un film d’amore. Una sera, mentre era felice, sgranocchiando semi di zucca, in mezzo alle zie intente a baciarsi con i rispettivi fidanzati, a tradimento, sullo schermo, due innamorati stavano ballando stretti in una balera ed è partita una canzone. Una canzone vecchia come il mondo, di Gino Latilla, che dice “è stata una vertigine, tenerti stretta al cuor” e ora ti dirò lasciandoti “scusami, scusami ancor”.
E il bambino, in quel momento, ha iniziato a piangere. Senza tristezza e senza dolore. Dolcemente. Senza disturbare, senza neppure smettere di succhiare la caramella. Il bambino era stato visitato dall’amore che, senza trovare difese, era entrato languido e fermo. Per sempre. Quella canzone, quel bambino, non l’ha mai più sentita, per molti anni, mai, né in radio, né in televisione, né da un’orchestra di una sagra paesana, mai, fino a quando è diventato uomo, come se fosse sparita dal mondo, ma lui non l’ha mai dimenticata ed ogni volta che l’amore riaffiora, riaffiora anche la canzone, e riaffiorano il cinema e la campagna e il film e la balera dove i due innamorati ballavano stretti e riaffiora prepotente la vertigine, lo sgomento, il languore e ancora la vertigine. Al posto del cinema centrale oggi c’è il parcheggio di un grande supermercato, della grande campagna è rimasto qualche alberello ficcato nel cemento. Di quel tempo è sparito quasi tutto, il talco borato Paglieri e l’olio dei meccanici, le ziette magari no, saranno chiuse dentro qualche casa, con i loro antichi fidanzati, in quella che un tempo era campagna ed ora è condominio o villetta a schiera.
E proprio davanti ai carrelli, questa mattina, un vecchio un po’ matto, ha intonato per il cielo e per i clienti del supermercato un canto stonato che teneva dentro il cuore da un sacco di anni.
Ora che è troppo vecchio per sopportare la perdizione di un amore così grande ha deciso di liberarlo e cantare l’unica strofa che ha mai conosciuto, quella che dice che è stata una vertigine tenerti stretta al cuor e che ora ti dirò lasciandoti scusami, scusami ancor.
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Il Conte di Montecristo

5/6/2022

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Se questa storia fosse una nave sarebbe in grado di attraversare tutti gli oceani, unicamente sospinta da un vento potentissimo che non conosce riposo e che gonfia, notte e giorno, le sue vele.
Questo vento è la vendetta. Edmond Dantes, a bordo del mercantile Pharaon, proveniente da Smirne, Trieste e Napoli, attracca nel porto di Marsiglia.
Il capitano della nave è morto all’altezza di Civitavecchia ma lui ha condotto la nave in porto con il carico in perfetto stato. L’armatore è contento di lui, vuole promuoverlo a capitano. Questo significa che Edmond, nato povero, potrà riscattarsi, migliorare la vita di suo padre e sposare la sua amatissima catalana, Mercedes.
Ma anche Ferdinand Mondego vuole Mercedes, anche Danglars vuole essere capitano e anche Caderousse vorrebbe le fortune che Dantes si è guadagnato. Lo denunciano come spia bonapartista e Gerard de Villefort, il magistrato che deve giudicarlo, pur conoscendo la verità, per ingraziarsi la famiglia filomonarchica dei marchesi di Saint Meran, lo condanna.
Rinchiuso a vita nel castello d’If. Qui conosce l’abate Faria. Il vecchio gli insegna la matematica, l’economia, la filosofia, le lingue straniere e gli rivela che, sull’isola di Montecristo, è nascosto un immenso tesoro. Infine gli fa un ultimo preziosissimo regalo. Morendo gli offre la possibilità, l’unica, di fuggire. Dantes si sostituisce al corpo del vecchio e, scambiato per il cadavere, viene gettato a mare. Dopo 14 anni a Marsiglia appare un uomo misterioso, ricchissimo, raffinato che si fa chiamare “Il conte di Montecristo”. Nessuno se ne dà conto, ma quell’uomo è tornato con un unico scopo: vendicarsi. Prepara con arte la sua vendetta, gli ci vogliono altri 10 anni. In questo tempo assume molte identità, diventa l’abate Busoni, il nobile inglese Lord Wildmore o Sinbad, il marinaio. Gratifica coloro che gli sono stati leali e aspetta il momento giusto per colpire coloro che hanno distrutto i suoi sogni e la sua vita. Mondego, che nel frattempo, era riuscito a sposare Mercedes viene processato per aver tradito il pascià Ali-Tebelen.
Indignati del suo comportamento moglie e figlio lo abbandonano facendolo sprofondare nella disperazione dalla quale uscirà solo suicidandosi. Poi è la volta di Villefort, il magistrato, colui che aveva tutti gli elementi per scagionarlo ma che aveva scelto di non usarli per propria convenienza. I membri della sua famiglia cadranno vittime di una serie di avvelenamenti che lo porteranno alla pazzia non prima che egli scopra la vera identità del conte di Montecristo. Caderousse poi, diventato un criminale avido e senza scrupoli viene ucciso da un suo complice.
Resta solo Danglars, il primo, quello che ha dato l’avvio a tutte le sue sventure. Ora è il banchiere più ricco di Parigi ma Dantes fa in modo che abbia un tracollo finanziario e sia costretto a dissipare tutto quel che ha per sfamarsi.
Quando è solo, povero e senza più nessuna speranza, il conte di Montecristo gli si rivela per quello che è. Danglars si pente e solamente a lui viene concesso perdono, forse perché era sincero, forse perché il terribile vento della vendetta si era acquietato nel cuore di Edmond Dantes.
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