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Enrico IV il pazzo

5/20/2021

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Giovani, ricchi, forse anche un po’ viziati ma pieni vita, di speranze, di progetti, con il mondo in mano.
Una festa in maschera, vestiti come nell’anno mille: imperatori, nobildonne, paggi.
Si decide di fare una cavalcata, nel meraviglioso sole del pomeriggio, In testa Matilde, bellissima, con i capelli sciolti che fanno concorrenza alla criniera del cavallo.
Dietro di lei il nostro protagonista, vestito come Enrico IV di Franconia che non le toglie gli occhi di dosso. Lei ogni tanto si volta, gli sorride.
Pochi passi dietro c’è Belcredi. Anche lui è innamorato di Matilde e notare quello sguardo che non è per lui, lo fa imbestialire, il sangue gli va alla testa, vuole ridicolizzare il suo amico davanti alla donna che amano entrambi, pungola il cavallo dell’imperatore che si imbizzarrisce e lo disarciona.
L’amico, cadendo, batte la testa e quando riapre gli occhi non ha più memoria.
Si guarda gli abiti e all’improvviso sa chi è: l’imperatore Enrico IV di Franconia.
È pazzo, impazzito. Gli amici e i parenti non trovano nulla di meglio che assecondare la sua follia. Il nipote di Nolli lo confina in un’ala del castello con un gruppo di servitori vestiti come nel 1084, quando Enrico IV fu incoronato imperatore del sacro romano impero.
Sono passati molti anni ora e Belcredi è sposato con Matilde, hanno persino una figlia che assomiglia alla madre in una maniera stupefacente, si chiama Frida.
Entrano dentro il castello con uno psicologo, interessatissimo al caso del povero amico caduto da cavallo che da tanti anni vive assecondato come si assecondano i pazzi, convinto di essere Enrico IV.
Più che interessato. Vuole fare un esperimento lo psicologo. Vuole vedere, data l’incredibile somiglianza di Frida con la madre Matilde, che effetto può fare sul paziente, fargli trovare di fronte la ragazza vestita come la madre.
Quando Enrico IV se la trova di fronte l’effetto è devastante, urla, la ragazza si spaventa, tutti balzano fuori, si accende la luce elettrica e sembra che ad Enrico torni la notte nel cervello.
Torni, sì.
Perché la memoria gli è tornata, da molto tempo, lo ha confessato ai servi ma ha preferito proseguire la commedia. Non è forse quello che fanno tutti nel mondo? Recitare una parte? Partecipare allo spettacolo. Ma arrabattandosi, dibattendosi, disperando per capire i loro casi, lui no, loro no, loro facevano già parte della storia.
Buffoni, i suoi amici, i suoi parenti che ora strabuzzano gli occhi e gli chiedono perché non è tornato nel mondo dei vivi.
Per cosa? Chiede Enrico. Per accontentarsi degli avanzi di una vita che gli è passata addosso senza che lui potesse davvero farne parte.
C’era più verità nel 1100 che in quel secolo che lui non aveva avuto l’opportunità di vivere.
Ma ora si era rivelato! E non poteva più fingere, mentire, recitare.
Ah no? Sembra pensare Enrico, ci vuole così poco per farsi credere pazzo ancora una volta.
Si avventa su Frida, la vuole abbracciare stretta, Belcredi si frappone per allontanarla da lui ed Enrico IV estrae la spada e lo colpisce al ventre ridendo come un pazzo.
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Frankenstein

5/12/2021

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Il 1816 fu un anno senza estate e quando l’estate non c’è nascono i mostri.
La sorellastra di Mary Shelley, Claire Clairmont, invita lei e suo marito Percy Bysshe Shelley, a Ginevra, a casa del suo amante, Lord Byron.
Qui, mentre fuori continua a piovere, le due coppie si sfidano a scrivere una storia che faccia davvero paura.
Mary è rimasta molto impressionata dalle teorie sul galvanismo, sull’idea che si possa restituire vita ad un corpo morto ed inventa quindi Victor Frankenstein, uno scienziato dedito alle scienze naturali che, ossessionato dalle sue idee, dai libri di Paracelso, Cornelio Agrippa, Alberto Magno, si iscrive all’università di Ingolstadt, in Germania, e passa le notti nei cimiteri perché ha un’idea folle: costruire un essere umano pezzo per pezzo e poi dargli vita.
Victor ci riesce.
Solo che la sua creatura è disgustosa, brutta, enorme, sgraziata.
Decide quindi di abbandonarla al suo destino.
Ma il suo mostro, il suo demone, come lui lo chiamerà, non è cattivo. Anzi. Perso per il mondo, si rifugia in una baracca di fronte alla casa di un vecchio, che si chiama DeLacey.
Il mostro osserva la famiglia, una famiglia di contadini, li aiuta, di notte, in segreto, spala la neve davanti a casa, raccoglie la legna d’inverno e ortaggi nei periodi di magra.
Ma quando decide di rivelarsi viene scacciato violentemente perché è orribile e li disgusta.
Ritrova quindi il suo creatore e gli chiede di fabbricare per lui una donna, una compagnia, non vuole stare solo e nessun essere umano lo vorrà, così com’è. Victor deve creare un suo simile.
Lo rassicura. Se gli darà una donna, spariranno entrambi, nelle lontanissime terre dell’america del sud e non faranno più male nessuno, non faranno più ribrezzo a nessuno.
Victor mette insieme la donna per lui ma poi ha un ripensamento. Non vuole mettere al mondo un altro mostro.
Ed è qui che il demone perde il controllo e inizia a lasciare dietro di sé una scia di delitti e fra le vittime c’è anche Elizabeth, l’unica donna che Victor abbia mai veramente amato, la donna che stava per sposare.
Victor decide quindi di vendicarsi del mostro, inseguendolo dalla Svizzera al Mediterraneo, dalle steppe russe fino al Polo Nord dove incontra l'equipaggio del capitano Robert Walton.
Ed è proprio fra i ghiacci, in quell’estate senza sole, che inizia e termina il capolavoro di Mary Shelley.
Victor Frankenstein muore poco dopo aver incontrato la nave del capitano Walton e la sua creatura arriva a piangerlo.
Il capitano lo accusa di tutte le persone innocenti che ha lasciato sul suo cammino e il mostro, prima di darsi fuoco, affinché nessuno potesse ricreare un mostro come lui, gli risponde che la sua rabbia deriva dal disprezzo che tutti hanno sempre provato per lui, persino suo padre, il suo creatore.
C’è tutto il freddo di quell’estate del 1816 in “Frankenstein o il moderno Prometeo”, c’è tutto il dolore dell’abbandono, del rifiuto, del disprezzo che Mary Wollstonecraft Godwin, il vero nome di Mary Shelley, ha sentito addosso molte volte nella sua vita, la morte della madre, l’allontanamento che ha subito dal padre, la pena straziante del figlio perduto e il desiderio di capire da dove e come sgorga la vita per poterla restituire alle cose morte.
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Il direttore dell'Aldilà

5/5/2021

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Me lo sono sempre immaginato come un immenso spazio vuoto, illuminato fiocamente da un sole bianco e pallido che non si muove dall’orizzonte. Una immensa pianura senza alberi, indistinta, con una nebbia bassa che attenua ogni rumore, arrotonda ogni profilo e poi tante teste, in fila, disposte secondo un ordine preciso.
Chissà come se l’era immaginato Alberto Savinio, questo suo al di là, nell’"Alcesti di Samuele".
La storia è questa: Siamo in piena seconda guerra mondiale e Paul Goerz, è   un   editore   musicale   di Monaco.
In seguito all’inasprirsi delle leggi razziali Paul   viene   convocato   in   Ministero   per   importanti comunicazioni: il problema è la moglie, Teresa. Lei è ebrea, Paul deve scegliere: o restare con lei o continuare a lavorare. Paul non ha dubbi, sceglie lei ma Teresa fa un’altra scelta si uccide gettandosi nel fiume, sacrificandosi come fece l’Alcesti di Euripide.
Paul, come Orfeo per Euridice, mito nel mito, scende agli inferi per salvarla e qui incontra uno strano personaggio. Il direttore, lo chiamano. È in quella pianura tetra che prima descrivevo o almeno io me lo sono immaginato così. Magro, elegante, ritto, senza ombra. È lui a spiegargli come le cose funzionano da quelle parti. Al contrario di tutto quello che si pensa non tutti passano di lì, solo una infima minoranza, cioè quelli che hanno da liberarsi da una personalità compatta.
Gli altri no, non ci sarebbe ragione.
Gli altri semplicemente passano, un corteo nero e silenzioso che si annienta rapidissimamente. Sono nati per una impercettibile scintilla di vita che subito si spegne e, già la vita, la attraversarono come morti e quindi ora spariscono, come una colata di catrame bollente dentro una caldaia di catrame bollente. Però, ci sono gli altri, i duri a morire.
Qualcuno, là sopra, nel mondo, fantastica, ipotizza che la loro dissoluzione laggiù sia proporzionale alla durata della loro fama sulla terra ma è una spiegazione intellettualistica.
La verità sta tutta nella personalità: tanto più è compatta, tanto è più lenta a disgregarsi.
È chiaro, semplice.
Rimbaud è più lento a morire di Aleardo Aleardi, faticano a morire anche Weininger, Lautremont, Kafka…altri che invece si diceva che avessero una fame indistruttibile si annullano anche prima del previsto…come quello in terza fila reparto C e quell’altro, fila 10 reparto P, Carducci e Pascoli, posti vuoti entrambi.
Chissà cosa aveva Savinio contro Carducci e Pascoli.
Il momento più terrificante è quando descrive quanto si sforzino di morire, stringendosi come spugne per farsi assorbire, spalancando la bocca a pieni polmoni come il malato in sala operatoria respira l’etere dell’anestesia e come soffrano quando sentono che la morte non apre le fauci. È infastidito il direttore, il loro tormento lo disturba, soprattutto di notte.
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