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Il cuore rivelatore

2/18/2022

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Ciò che troverete al fondo di questa storia terribile scritta molto tempo fa da Edgar Alla Poe, è uno degli impulsi più primitivi del cuore umano. L’istinto di commettere azioni vili, crudeli, sciocche semplicemente perché non dovremmo commetterle. Sì, quest’uomo è sempre stato molto nervoso ma non pazzo, capace anzi di udire tutte le cose, del cielo e della terra, dell’inferno persino. Non certo un pazzo. Eppure in un momento impossibile da individuare, un’idea gli è entrata nel cervello e, da lì, lo ha ossessionato notte e giorno. Era un’idea perversa senza scopo, senza odio. Lui voleva bene al vecchio, mai lo aveva offeso o insultato, né desiderava il suo oro.
Forse l’occhio gli dava fastidio.
Quell’occhio rapace, come di avvoltoio, pallido, azzurro, coperto da una pellicola, quando si posava su di lui lo raggelava. E così, per gradi, giorno dopo giorno, senza alcuna ragione, decise di togliere la vita al vecchio. Per sette notti l’uomo ha socchiuso la porta, lentissimamente, e solo una volta dentro ha fatto uscire da una lanterna quel po’ di luce che illuminasse fiocamente il viso del vecchio il cui occhio però era chiuso. Pertanto, non era stato capace di portare a termine le sue intenzioni, poiché non era il vecchio che incendiava la sua rabbia ma quell’occhio maligno che non riusciva a vedere.
L’ottava notte, muovendosi più lentamente della lancetta di un orologio entrò nella stanza e quell’occhio terribile gli si rivelò, ghiacciandolo fino al midollo. A quel punto iniziò a sentire il battere del cuore del vecchio crescere, crescere, crescere, fino a terrorizzarlo, senza che però muovesse un muscolo. Quando il rumore si fece insopportabile agì, illuminò la stanza, il vecchio urlò una volta sola, l’uomo lo scagliò a terra e su di lui rovesciò il letto pesante, per alcuni minuti il cuore ancora si sentiva, poi cessò, il vecchio era morto.
Con un’accortezza non certo da pazzo occultò il cadavere sotto alcune assi del pavimento, riordinò la stanza e verso le quattro, tranquillo accolse alla porta un paio di funzionari di polizia chiamati da un vicino che aveva sentito i rumori. Con una sensazione di potenza li fece accomodare, parlò sereno, con un respiro calmo, i poliziotti si fecero convincere dai suoi modi, sedevano tranquilli ed ignari sopra le stesse assi poco prima divelte e riaccomodate, discorrevano del più e del meno, senza fretta, né sospetto.
Quando, all’improvviso, l’uomo sentì, come fosse un orologio avvolto dal cotone, un ticchettio lontano, come fosse il battito di un cuore. In un istante iniziò a desiderare che gli agenti se ne andassero ma quelli non sembravano avere intenzione di muoversi e continuavano a chiacchierare pacifici. Il battito aumentava, aumentava, aumentava, lui si faceva pallido, tremante, la gola si fece secca, un tremore iniziò a scuoterlo dai piedi alle dita delle mani.
​Ad un certo punto il rumore gli sembrò un frastuono e non riuscì più a trattenersi dall’urlare, si alzò, gridò” Smettete di fingere, mascalzoni! Confesso il delitto, sollevate queste tavole, il vecchio sta lì, lui e il battito del suo maledetto cuore!
Se ti piacciono le storie spaventose, prova a LEGGERE/ASCOLTARE anche questa!

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Catullo e Lesbia

2/16/2022

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Può una passione attraversare i secoli e arrivare a noi intatta e vibrante? Quando è forte come una quercia e quando uno dei due amanti è un poeta, può, arrivano parole talmente cariche di amore e rabbia e tenerezza e passione che sembra una storia che sta succedendo, non una storia di amanti che incendiavano i loro corpi e i loro cuori quasi 2100 anni fa.
Lei è una signora romana, bellissima e spregiudicata. A lei del mos maiorum gliene frega meno di niente, fa quello che vuole, partecipa alla politica spalleggiando il fratello Clodio che tenta un colpo di Stato, qualcuno dice che tentò di avvelenare il marito Quinto Metello Celere.
Cicerone la odia, durante l’orazione in difesa di Celio Rufo, la dipinge come una donna “nota a tutti”, sempre in mezzo ad amorazzi, orge, adulteri, banchetti e gozzoviglie.
Bel tipino, no?
E lui? Lui ha dieci anni meno di lei, è un poeta giovane, scanzonato, viene da una famiglia agiata che contribuì a fondare la città di Verona, che poi non si dica che l’amore non rimane attaccato alle cose, e si innamora di questa donna in maniera totale, senza possibilità di appello e redenzione.
Lui è Gaio Valerio Catullo, lei è Clodia Pulchra, anche se lui, in tutti i suoi versi, la chiamerà sempre Lesbia.
A volte la tratta come una regina, le parole sono dolcissime, Catullo paragona a un Dio, l’uomo fortunato che può sedere con disinvoltura accanto a lei, perché a lui basta un sorriso di Lesbia perché le braccia gli si sciolgano come attraversate da una fiamma sottile e la lingua si paralizzi.
Scrive parole tenere, a volte disincantate quando non crede alle sue promesse di fedeltà, che paragona a scritte nel vento o sull’acqua corrente.
Altre volte sono parole incandescenti quando sembra urlarle di essere impazzito d’amore tanto da non riuscire più a volerle bene nemmeno se lei si facesse irreprensibile, tanto da non essere capace di smettere di amarla neppure se si comportasse peggio di come già fa.
La tratta anche come una puttana quando sembra piangere mentre scrive che l’unica donna che abbia mai amato elargisce sesso a tutti i cittadini di Roma, diventa persino osceno quando le augura ironicamente di vivere felice avvinghiata ai suoi 300 amanti senza che ne ami nessuno ma spossando le reni di tutti.
5 anni di vene bollenti, litigi, ripicche, passione, tenerezza e sdegno in cui possiamo seguire tutti gli alti e bassi di un amore e soprattutto di un amante lui che ama ciecamente, smania, soffre e si illude di false speranze.
Non è stata una bonaccia d’agosto l’amore fra Catullo e Clodia, è stata una tempesta, un vortice, un tormento e un abbandono.
Ma se questo ha fatto arrivare fino a noi, parole come queste, forse ne è valsa la pena.
 
Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e ogni mormorio perfido dei vecchi
valga per noi la più vile moneta.
Il giorno può morire e poi risorgere,
ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo.
Tu dammi mille baci, e quindi cento,
poi dammene altri mille, e quindi cento,
quindi mille continui, e quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille,
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l’invidioso
per un numero di baci così alto.
Ti piacciono le grandi storie d'amore classiche? Prova ad LEGGERE/ASCOLTARE la più classica di tutte!

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Quando Quincas morì due volte

2/4/2022

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Lo hanno trovato oggi, giù al porto, nella città bassa di Salvador. Che pena.
La famiglia non sa bene come comportarsi con il corpo di Joaquim Soares da Cunha, ex funzionario delle imposte che, un bel giorno per lui, e un brutto giorno per loro, ha deciso di dirgli “tchau tchau” e di cambiare vita, di cambiare vita sul serio e, non solo la vita, anche il nome.
Prima di prendere la porta però si è preso la soddisfazione di sputare fuori quello che gli stava sullo stomaco da un sacco di tempo…si è rivolto a Vanda e a sua madre, Dona Otacilia, chiamandole “vipere” e, già che c’era, ha sparato anche uno “stupido imbecille” ben scandito indirizzato al marito di Vanda, Leonard.
Da quel giorno in avanti ha fatto sempre il vagabondo, con il nome di Quincas, ma non uno qualsiasi. La stampa locale non nomina mai Quincas senza far seguire il suo titolo: re dei vagabondi dei bassifondi e patriarca delle prostitute.
Che vergogna per la famiglia, che vergogna, cosa pensano i vicini, gli amici, la gente nella piazza.
Così, ora che è morto, meglio fare tutto con grande discrezione. Vanda, Leonard, e la sorella di Quincas, Zia Marocas e il fratello Eduardo gli infilano un semplice vestito, un paio di scarpe, niente biancheria intima, che tanto chi se ne accorge? Un paio di candele E si riuniscono per la veglia funebre.
Quell’impunito pure con il rigor mortis ha la bocca piegata in un sorriso canzonatorio che provano ma non riescono ad ignorare, sembra che li disprezzi ancora, che ancora li prenda per il culo.
Ci stanno meno tempo possibile, poi se ne vanno a casa, un peso in meno pensano certamente.
Proprio mentre loro se ne stanno andando, alla camera ardente arrivano gli amici del porto dI bahia: Pettirosso, il Negro Frangetta, il comandante Martim e Ciclone…loro sì che piangono e soffrono. Il loro re gli sta già mancando più dell’alcol al risveglio.
Provano a confortarsi l’un l’altro, ricordando le sue avventure e, se si distraggono, sembra per un attimo che sia ancora vivo, ancora lì con loro, ancora con quel ghigno che sfida tutto e tutti.
“Dovrò occuparmi i Quitéria, la prostituta fidanzata di Quincas?” si chiede il comandante. Nessuno risponde.
Pian piano il dolore diventa gioco, quando nei racconti emergono i momenti più divertenti passati insieme,non sembra più una veglia funebre ma una festa, i 4 bevono cachaça e la fanno bere anche a lui. Perché non gli facciamo fare un ultimo giro al porto? Propone uno dei 4 balordi. Perché no?! Da capitan Manuel a mangiare la moqueca di peixe, il suo piatto preferito.
Anche dopo cena non riescono a salutarlo, lui continua a sorridere, davanti al mare. Il mare! Quello che ha sempre amato! Il capitano Manuel mica si chiama capitano per caso, ha una barca! Un ultimo giro, ci vuole un ultimo giro!
Appena fuori dal porto una tempesta arriva improvvisa e inizia a sbatacchiare la barca come fosse una scatola di fiammiferi, il capitano gira il timone affrettandosi a tornare a riva ma qui accade il miracolo.
Tutti e 4 sarebbero ancora oggi pronti a giurare che, a quel punto, Quincas, fu Joaquim Soares da Cunha, si alzò in piedi e di sua spontanea volontà si gettò in acqua.
Tutti e 4 sarebbero ancora oggi concordi nel dire che, prima di sparire fra i flutti, disse ancora: “Mi seppellisco come voglio e quando mi pare. Mettete via la vara per un’altra occasione, non mi lascerò chiudere sotto terra in un cassone”.
Ecco come Quincas l’acquaiolo preferì alla terra l’acqua e a tutto il resto la sua libertà.
Vuoi LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia di Brasile? Prova questa!

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I viaggi di Gulliver

2/4/2022

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Sono un uomo di mezza età, un Borghese, molto alto, sono quasi due metri. Conosco la medicina e le lingue e ho una grandissima passione per i viaggi.
Mi chiamo Lemuel Gulliver.
Gulliver si trova senza un soldo e per questo decide di imbarcarsi su una nave come chirurgo di bordo. Salpano da Bristol, poco prima che il nuovo secolo inizi, è il 4 maggio del 1699.
Quando mancano pochi giorni al 1700 una terribile tempesta squassa la nave, la fa naufragare e Gulliver perde conoscenza e viene sbattuto dalle onde su un’isola sconosciuta.
Quando riapre gli occhi è legato, fissato al suolo da centinaia di piccole corde e circondato da una folla di uomini alti una quindicina di centimetri. Si trova a Lilliput.
Dopo essere riuscito, con grande sforzo, a dimostrare di essere un uomo pacifico, viene accolto a corte. Una corte, per la verità, in cui lui è anche un gigante intellettuale. Prova anche a far notare ai cortigiani quanto ridicole siano le lotte fra le varie fazioni, il modo di prendere il potere o di assicurarsi la fiducia del sovrano. Di quanto appaiano inconsistenti le inutili diatribe in cui i lillipuzziani si perdono,i loro giochetti di potere, le loro bassezze miserabili, non solo fisiche. Eppure nonostante il massimo delle discussioni ruoti attorno ad argomenti tipo da che parte rompere le uova o se siano più rispettabili coloro che portano i tacchi bassi rispetto a coloro che portano i tacchi alti, i lillupuzziani sono convinti di essere il popolo più grande del mondo…pur avendo di fronte un uomo, rispetto a loro, gigantesco.
Gulliver li aiuta a sconfiggere Blefuscu ma si rifiuta di aiutarli a rendere schiavo il popolo vicino. Questo suo rifiuto viene interpretato come un tradimento e Gulliver è costretto a scappare prima di essere condannato all’accecamento e alla lenta morte per fame.
Si rimette in mare ma una nuova tempesta lo coglie e lo scaglia su una nuova spiaggia. Qui viene trovato da un contadino che, però, questa volta, è enorme. Alto almeno 22 metri.
Viene curato dalla figlia del contadino ma il padre lo esibisce come una sorta di fenomeno da baraccone per raggranellare un po’ di soldi.
La regina di questo luogo, Brobdingnag, vuole conoscere questo mostricciattolo restituito dalla burrasca. Per lui costruirà una piccola casa, una scatola da viaggio, la chiama. Gulliver avrà anche l’opportunità di incontrare l’imperatore e di discutere con lui di materie raffinatissime.
Ma qui Gulliver si fa spocchioso, afferma che non c’è terra migliore della sua di origine, critica le leggi dell’imperatore, la sua ignoranza politica, la pochezza di quel paese e dei suoi abitanti che però, rispetto a Gulliver, sono giganteschi.
Arriva a proporre al sovrano la produzione di polvere da sparo e armi da assedio. Qui il regnante di indigna, trova la proposta stupida e disumana.
Gulliver solcherà ancora il mare ed altre avventure lo porteranno in un’isola volante dove la scienza applicata senza fini pratici peggiorerà la vita degli uomini, facendoli accanire su questioni irrilevanti come cavare i raggi del sole da un cetriolo, ammorbidire il marmo per farne cuscini o analizzare le feci di sospettati di congiure politiche.
Raggiungerà anche una terra in cui dominano i cavalli che si dimostrano intelligenti e capacissimi, tanto che lui vorrebbe restare ma non gli viene permesso, poiché bipede e viene rimandato in patria dove non riuscirà più a vedere gli essere umani allo stesso modo.
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Il giorno che si è rotto il teatro

2/4/2022

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È il 9 maggio del 1921 e al teatro Valle di Roma va in scena uno spettacolo di Luigi Pirandello. 
I primi spettatori che entrano a teatro pensano di aver sbagliato sala o serata. Vengono accolti da un palcoscenico spoglio, il traliccio è appoggiato a terra, alcuni operai attraversano la scena spostando cantinelle, quinte e luci. C’è solo un tavolaccio buttato in mezzo. Le persone fra il pubblico si guardano perplesse. 
Poi arrivano degli attori, il regista ma arrivano dalla stessa porta da cui il pubblico è entrato, si comportano come se fosse un giorno di prova, chi è annoiato, chi propositivo, si fanno commenti, battute, arriva anche la prima attrice con il cagnolino d’ordinanza. 
Mentre la compagnia si prepara a provare e il pubblico non sa se andarsene o restare, arrivano 6 persone dall’aria triste, sono una famiglia, padre, madre, il figlio e la figliastra. C’è anche un adolescente e una bambina che non parlano mai. 
Sostengono di essere sei personaggi che hanno bisogno di una storia, di un autore che metta in scena la loro vicenda. È una vicenda terribile e spaventosa.
Il Padre dice di aver abbandonato la moglie, si giustifica, dice che è stato per il bene di lei che era innamorata di un altro uomo. Lui però non ha mai smesso di seguire da lontano l’andamento della nuova famiglia, la nascita di altri tre figli, fino a quando l’uomo al quale ha ceduto la sua vita morirà.
La madre e la figlia sono così costrette a lavorare nell’atelier di un personaggio sgradevole, madame Pace si chiama. La vecchia non è soddisfatta del lavoro della madre e allora fa una terribile proposta alla figlia, giovane e bella, quella di “intrattenersi” con degli uomini se non vuole che la madre perda il lavoro e rimanga sola a crescere quattro figli.
La ragazza cede ed è qui che l’orrore si compie perché un giorno si trova di fronte, come cliente, il padre che li aveva abbandonati.
Gli attori tentano di rappresentare proprio questa scena. La trovano potente proprio perché drammatica ma la figliastra, quando la vede, si mette a ridere, è troppa la distanza fra la verità e la rappresentazione.
“faccia fare a noi!”, viene chiesto al capocomico. Noi sapremo come dare corpo vero alla nostra vera disgraziata vita. Ora però la carica emotiva è fin troppa, la madre irrompe sulla scena per evitare che lo scempio si compia, il servo di scena, per errore fa cadere il sipario, l’atto si chiude.
Il capocomico è infastidito, si è persa una giornata di prove per assecondare questo e altri vaneggiamenti, alcuni dei quali agghiaccianti, di questi strani tizi usciti dal nulla e venuti a pretendere chissà cosa. 
In quel momento si accende per sbaglio una spettrale luce verde che proietta 4 grandi ombre: quella del padre, della madre, del figlio e della figliastra.
Il capocomico fugge terrorizzato in mezzo al pubblico, le figure escono dal fondo e si piantano in mezzo al palcoscenico, ad esigere ancora la loro verità.
“manicomio!” “Manicomio” urla indignato il pubblico del teatro Valle per questo spettacolo assurdo senza quarta parete e senza ordine di tempo. 
“Manicomio!” “Manicomio” urlano dalla platea e dai palchi. 
I pazzi sembrano aver preso possesso del teatro e forse è così perché dal 9 maggio 1921 il teatro non sarà più la stessa cosa.
Ti piace Pirandello? Prova a LEGGERE/ASCOLTARE cliccando qui!

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Andrej dei cani

2/4/2022

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Il posto si fa fatica a pronunciare, si chiama Bespalovskoye, è un gruppo di case, semidisabitato, in mezzo alle montagne dei serpenti, Altaj, Siberia Occidentale. 
C’è un bambino che non vuole nessuno: la madre se ne va poco dopo la sua nascita, la nonna firma un documento in cui dice che le sue condizioni economiche non le permettono di aver cura di lui, la zia non ne vuole sapere, dice che è problematico, quando ha tre o quattro anni se ne va anche il padre. 
In Russia non è infrequente, sono 100.000 i bambini che, ogni anno, vengono abbandonati e finiscono male. 
Anche lui viene abbandonato ma non da un cane, che rimane nella fattoria. 
Il cane gli insegna a procurarsi il cibo, ad annusarlo prima di mangiarlo, a ringhiare per difendersi, a trovare un posto caldo per dormire, lo stesso dove dorme lui, i due dormono abbracciati per molto tempo, per tenersi al caldo, nel frattempo la lentissima macchina burocratica mastica documenti, sentenze e controsentenze fino a quando finalmente lo Stato arriva a farsi carico del bambino togliendolo alla madre in contumacia.
Quando gli addetti all’orfanotrofio arrivano alla fattoria vengono affrontati dal cane. Solo dopo esce Andrej, a 4 zampe, abbaia forsennatamente, cerca di morderli.
Evgenia Resnikova, l’infermiera che si occupa di lui nell’istituto dove, a fatica, lo hanno portato, dice che in trenta giorni ha fatto progressi incredibili, ha imparato a camminare sulle gambe, mangia con il cucchiaio, apprezza molto il letto con le lenzuola pulite e comunica a gesti. 
Si ricorda del padre, fa segno che aveva la barba e un tatuaggio sul braccio, non gli importa che se ne sia andato, aggiunge con un gesto scattoso. 
Chissà cosa farà da grande Andrej, dicono che, tra qualche anno, quando avrà imparato a parlare, lo faranno incontrare con Vanya Mishukov, un uomo che ha avuto una storia molto simile alla sua, anche Vanya è stato allevato da un branco di cani randagi, era il 1998, a Reutov.
Lui poi ha fatto la scuola dei cadetti della marina di Kronshtadt, vicino San Pietroburgo, e sicuramente saprà dare qualche buon consiglio ad Andrej, non su come indossare la divisa, né su come tenere le posate o come dire le cose giuste in società, forse gli ricorderà soltanto di tenere da parte gli avanzi per i tanti randagi che ci dimentichiamo di continuo appena dietro l’angolo.
Prova a LEGGERE/ASCOLTARE anche questa storia!

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