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Il sillabario di Sequoyah

7/14/2022

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Arkansas, primi anni dell’800.
Due inglesi sudati e con la faccia da avvoltoi fissano un foglio di carta. Uno elenca ad alta voce una serie di oggetti che vuole gli vengano riportati, l’altro muove un attrezzo lungo e sottile su un foglio di carta. Poi lo solleva e ripete la stessa lista di oggetti, nello stesso ordine, senza un attimo di esitazione.
Poco lontano, seduto all’ombra di un albero, c’è un pellerossa, si chiama Sequoyah è diverso da come potremmo immaginare un Cherokee, ha un turbante rosso e bianco, pelle scura, rasato, indossa una palandrana azzurra e fuma una lunga pipa ma, ciò che è più importante è che è stupefatto. Come tutti i Cherokee anche Sequoyah era analfabeta ma, in quei segni, si nascondeva il modo per aiutare la memoria a ricordare.
L’indiano era un fabbro ed iniziò ad associare ad ogni suo cliente un disegno attorno al quale linee e cerchi di varie misure gli ricordavano quanto denaro ogni persona gli doveva.
Intorno al 1810 iniziò a pensare che gli sarebbe piaciuto inventare un sistema di segni per mettere su carta la lingua Cherokee. Iniziò con un sistema di pittogrammi ma era complicatissimo, lo abbandonò subito. Poi tentò di associare un disegno ad ogni parola ma, anche qui, quando si rese conto che i segni diventavano centinaia, migliaia, abbandonò l’impresa, i segni non bastavano mai.
Una notte ebbe una folgorazione, forse ascoltando il pianto di un bambino, forse l’abbaiare di un cane, forse lo scroscio della pioggia.
Intuì che ogni parola era composta da un piccolo numeri di suoni che si ripetevano, quelle che oggi noi chiameremmo sillabe, e allora iniziò ad elencarle.
Si fece prestare un sillabario inglese da un maestro di scuola, copiò alcuni segni dell’alfabeto inglese, altri li inventò di sana pianta, fino ad arrivare ad una prima lista di 200 segni ma lavorandoci e lavorandoci ancora, riuscì a ridurre il tutto a 85 segni.
I Cherokee, per la prima volta nella loro storia, avevano una lingua scritta.
Nel giro di pochi anni la impararono tutti, davvero tutti. Si comprarono un torchio da stampa, fusero in piombo i segni di Sequoyah e iniziarono a stampare libri e giornali che parlavano del loro popolo.
Forse potrebbe piacerti LEGGERE/ASCOLTARE anche QUESTA STORIA!

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Il bacio di Alfred Eisenstaedt

7/13/2022

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Il 6 luglio di quest’anno, ieri per l’esattezza, rispetto all’uscita di questo episodio podcast è stata la giornata mondiale del bacio. Al di là della saturazione delle giornate mondiali, tanto che servirebbe una giornata mondiale per celebrare le giornate mondiali, questa è una bella giornata che mi va di celebrare, perché negli ultimi anni il covid ha gettato un velo di sospetto su questo gesto bellissimo, quindi vi racconto la non edificante storia di uno dei baci più famosi della storia dei baci.
Il 14 agosto 1945 a Times Square c’è un sacco di gente, la guerra è finita, la gioia è incontenibile e Alfred Eisenstaedt, un fotografo 47enne, si aggira per le strade cercando di catturare immagini che raccontassero al mondo quel momento.
Ad un certo punto vede un marinaio che incede a passo svelto, abbracciando persone, con l’euforia tipica di chi ha bevuto qualche bicchiere di troppo. Poi un lampo bianco che fa girare di scatto il fotografo e gli fa premere il dito sul pulsante che fa fare l’occhiolino all’otturatore della sua Leica Illa. Sono le 17 e 51 minuti e lui ha appena scattato una delle foto più iconiche del ‘900.
Un marinaio ed un’infermiera, simboli della vittoria americana, belli ed innamorati, che si baciano per festeggiare la fine della seconda guerra mondiale.
I due si disperdono, c’è confusione, Alfred non fa in tempo, e forse neppure pensa, di chiedere come si chiamino quei due ragazzi che finiranno sulla copertina di Life.
Vista la fortuna della foto, negli anni a seguire, molti si presenteranno alla redazione del giornale dicendo di essere i protagonisti di quello scatto storico, almeno 3 uomini e 2 donne, nel corso degli anni 50, 60 e 70 ebbero il loro momento di celebrità grazie alla bugia raccontata ma la verità, quella vera, la vera verità, e non per forza migliore, venne a galla solo nel 2012.
Lui si chiamava George Mendonça e lei Greta Zimmer Friedman. Lui era in effetti un marinaio, lei invece era un’igienista dentale.
Non si conoscevano neppure, altroché fidanzati o innamorati.
Lui passò, la abbracciò in un impeto di gioia e alcol e la baciò. Lei rimase interdetta e, un attimo dopo, proseguì la sua passeggiata a Times Square.
Non si videro mai più.
Forse, per la giornata mondiale del bacio, possiamo riferirci ad altri baci, nostri o di altri, reali o dipinti da qualche pittore famoso, purché si celebri questo momento speciale nelle vite di tutti noi.
E pure la foto di Alfred Eisenstaedt che rimane uno scatto emozionante.
Vuoi LEGGERE/ASCOLTARE invece una storia "insolitamente" romantica? CLICCA QUI!

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L'orologiaio del Cairo e il tempo del mondo

7/13/2022

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Ero tornato in nordafrica a cercare un vecchio orologiaio che aveva il suo sgabuzzino alla periferia del Cairo.
Non ero neppure sicuro di trovarlo, visto che, già quando lo avevo incontrato, mi pareva vecchissimo, seppur molto energico, per quanto la calura della latitudine e i gesti lenti della sua cultura glielo permettessero.
Temevo quindi di non trovarlo più ma quello che non avevo messo in conto era di non ritrovare più il suo bugigattolo, sostituito da un ristorante modesto, con orribili insegne al neon, sedie di plastica e un lungo bancone al posto di quello che era il suo piano di lavoro.
Sono entrato comunque, l’ora di pranzo era passata da un pezzo e, nonostante il luogo non fosse per niente attraente, nel quartiere sembrava l’unica possibilità per mangiare ancora qualcosa.
Mentre consumavo un piatto modesto come il locale, un ticchettio ha iniziato a salire di volume senza che capissi esattamente la sua provenienza.
Sembrava uno dei tanti ticchettii che occupavano lo spazio sonoro della vecchia bottega, anche se aveva un andamento irregolare, diverso da quello di un comune orologio, non sembrava insomma scandire un tempo comune.
La suggestione e la canicola fanno scherzi bruttissimi da quelle parti, come quando una folata di vento alza una nuvola di polvere e quando si deposita pare che siano cambiati i colori, le persone, le traiettorie, tutto il mondo che avevi visto fino a poco prima, insomma.
Per tutta la giornata quel ticchettio mi è rimasto in testa.
Tornato alla mia pensione, un basso edificio schiacciato fra alcuni palazzi del centro, mi sono messo a letto fissando la ventola che girava regolare e che mi ha fatto sprofondare in un sonno incerto, senza che il ticchettio smettesse di dettare il suo ritmo.
In quel sonno, il vecchio orologiaio mi è apparso, era in un nuovo negozio, in una nuova città, e lavorava ad un solo nuovo orologio.
Un elegante orologio a cipolla, da panciotto, che intagliati sulla scocca aveva disegni di datteri e limoni, fiori e cedri ed una scritta in arabo che nel sogno sapevo leggere ma che ora non sarei in grado di riferire.
L’orologio era composto da quattro cerchi concentrici che si muovevano a diverse velocità con un meccanismo che sembrava avere la precisione di un planetario.
Il vecchio correggeva qualcosa con un minuscolo cacciavite a stella, lo zuccotto gli stava in testa fermo come la luna piena e gli occhi azzurri, come il guizzo di un pesce, all’improvviso si alzarono e mi salutarono.
Senza che chiedessi nulla mi spiegò a quale orologio stava lavorando. Era un aggeggio che misurava varie scale temporali, mi spiegò. Il cerchio più esterno, la corona principale, misurava il tempo della natura, quello geologico.
Osservai che non si muoveva di un millimetro.
“No, si muove”, disse lui, “ma è un tempo troppo lento perché tu lo veda, “è il tempo in cui i ghiacciai scavano i canyon, il tempo in cui gli uccelli sviluppano le ali. È il tempo dell’eternità. La seconda ghiera invece misura il tempo della cultura”, continuò, “quella nostra, quella vostra, quella degli ebrei, dei cinesi o di chissà chi altri…”.
Anche quella mi sembrava ferma ma non dissi niente. Lui rispose lo stesso: “Anche questa ha un tempo troppo lento perché tu lo veda ma va molto più veloce di quella esterna.”
“E questa?”, chiesi, indicando la successiva. “Questa è quella dei governi: dittatoriali, monarchici, repubblicani. Questa la puoi vedere muoversi nel corso della tua vita oppure no. Quella successiva invece è quella delle opere: ponti, strade, canali che vengono eretti e crollano.”.
“L’ultima sembra impazzita.”, dissi.
“L’ultima è quella delle mode, stili, capricci, regolucce umane”, varia a gran velocità, tanto che i perni si usurano, ne stavo giusto sostituendo uno.”, disse mostrandomi il cacciavite minuscolo.
“E a che serve questo orologio?”
“A misurare il tempo del mondo.”, disse come se fosse cosa di piana ovvietà. “A ricordarsi di non perdere la capacità di distinguere fra le diverse scale di tempo, i governi non dovrebbero seguire il tempo delle mode, la cultura non deve ambire all’eternità e così via…ad ogni cosa la sua corona, la sua ghiera, il suo tempo.”
“E questo?”, chiesi indicando una specie di barometro che stava a lato del quadrante.
“questo è un meccanismo che divide il tempo lineare da quello prezioso, ci sto ancora lavorando”.
Mi svegliai che il ticchettio non c’era più, il sole stava tramontando in un bagno di rosso e rosa e una brezza risollevava lo spirito senza spiegarmi a quale tempo appartenesse quel momento.
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La danza di Çorkan

7/13/2022

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Se c’è una cosa noiosa sono le lunghe notti d’autunno a Visegrad.
Gli abitanti se ne stanno vicino alla stufa nella locanda accanto al ponte sulla Drina ma le ore sono lunghe da far passare, presto scarseggiano sia le parole che le risate.
Per fortuna capita spesso che ci sia quel disgraziato di Ćorkan che prova a farsi asciugare dall’umidità gli stracci che si porta addosso.
A parte qualche lavoretto saltuario, Ćorkan si guadagna da vivere facendosi prendere in giro da generazioni di ragazzotti e da qualche signorotto che gli offre rakija e ruhm e qualche moneta.
La storia è sempre la stessa, quella di una ballerina di cui, tanti anni prima, quell’avanzo di uomo di Ćorkan si era innamorato.
Si fanno raccontare la storia e raccontare ancora, piovono i commenti, davanti lo trattano come un casanova ma dietro si danno di gomito e sghignazzano. Lui lo sa, ogni notte si dice che non lo accetterà più ma poi l’alcol, le monete, le pacche sulle spalle sono un’attrattiva troppo forte.
A Visegrad c’è un’orfana bellissima che si chiama Paša, qualche giovanotto ubriaco fa credere a Ćorkan che lei abbia lasciato per lui un fiore sulla strada, che sia innamorata insomma, di più, devastata dal languore per lui.
Ćorkan quando è sobrio non ci crede, giovane e bella com’è Paša, perché dovrebbe interessarsi a lui, ma quando è ubriaco crede a tutto, anche che una diciannovenne bella come acqua trasparente ami un vecchio arnese come lui.
Se ne parla per mesi, tutti ridono, Čorkan è sempre un po’ meno diffidente e sempre un po’ più convinto…fino a quando Paša va in sposa di Hadži Omer, un ricco cinquantenne, già sposato con Hadži Omerovica che però non poteva dargli un figlio.
Il giorno delle nozze Ćorkan è distrutto dal dolore e nessuno lo aiuta, anzi, gli riempiono il bicchiere e perpetuano l’ignobile scherzo.
“Che ingiustizia Çorkan, tu sei più giovane e più bello, senza contare che il suo cuore ti appartiene”…”E non sei neppure più povero!”, aggiunge uno più crudele degli altri.
“Tuo padre, si dice, era un nobile che ha lasciato per te un’infinita eredità a Brussa, un’eredità che i tuoi parenti ti tengono nascosta.”
Çorkan non ci crede, sa di essere orfano e disgraziato ma, appena beve, vede gli edifici bianchi e i lussureggianti giardini di Brussa e una cassa piena d’oro con la quale potrebbe strappare Paša a Hadži Omer che neppure la voleva.
Nel frattempo si fa l’alba, un’alba ghiacciata e rosa che fa risplendere il ponte sulla Drina come fosse costruito di diamanti.
“Nessuno sarebbe capace di camminare sul parapetto in una mattina come questa!”, urla qualcuno.
“Come no?”, biascica Ćorkan sputando rakija, saliva a catarro. “Io ho il coraggio!”
E senza aver finito di pensarlo, le sue scarpe sporche e pesanti poggiano già sullo stretto parapetto ghiacciato.
Sotto di lui scorre tumultuoso il fiume gelato e si increspa in una schiuma che prende il colore del primo sole pallidissimo.
Ćorkan inizia a muoversi, è lento e impacciato, barcolla, lo guardano i suoi compagni di bevute e lo guardano i bambini che si stanno incamminando per raggiungere la scuola, al di là del bosco.
Ad un certo punto Ćorkan chiude gli occhi e le sfavillanti piazze di Brussa si disegnano nella sua mente, si sente leggero come un ballerino e come un ballerino inizia a danzare, i passi si fanno corti, rapidi, sicuri, ritmati, agita le braccia, piega il busto e danza sul parapetto ghiacciato del ponte sulla Drina.
“In culo a tutto, in culo a tutti”, sembra dire ad ogni movimento Ćorkan.
Poi atterra sul ponte, come un ginnasta e una frazione di secondo dopo appare di nuovo quel che è: miserabile, tozzo, curvo e malmesso.
Neppure saprebbe dire cosa è successo.
Tutti lo festeggiano e, invece di andare a casa, tornano all’osteria a bere un ultimo bicchiere.
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