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Silvia e il vocabolario

3/19/2021

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Non è che Silvia ricordi bene com’è andata. Non in modo lucido, voglio dire. E’ stato una mattina dei primi giorni di Luglio, piuttosto fresca per essere piena estate. La stagione che, da sempre, rappresentava per lei il momento delle promesse, non rispondeva più in alcun modo alle sue richieste. Non c’era più un organo del suo corpo che, guardando fuori dalla finestra, avesse un sussulto o facesse anche solo un respiro. Silvia si è sentita morta in una maniera serena, senza dolorosa rassegnazione, si è sentita andata e l’ho accettato come una specie di condizione transitoria. Il solo ago che pungeva in modo fastidioso stava tutto in quell’assenza di luce, nella quasi certezza che le cose non si sarebbero raddrizzate mai; ed è stato allora che è saltata fuori nella sua testa quella frase così banale e tante volte sentita: “Nulla ha più senso”. Proprio mentre il suo cervello affaticato partoriva quella frase, depositata lì da una fiction qualsiasi, si è voltata verso la libreria. In mezzo a decine di libri dai profili sottili e dai colori accesi o spenti, stava, ciccione, il vocabolario della lingua italiana. “In fondo lì dentro ci sono tutti i sensi che ho perso”, ha pensato come diretta conseguenza del pensiero precedente. Le parole non sono che segni grafici di un’immagine o un sentimento; e le immagini e i sentimenti sono vita e respiri e passione. Sono attimi di vita di uomini e donne che hanno inventato quelle cose o, per primi, hanno dato loro un nome. Le parole dovrebbero evocare in un cuore che batte emozioni e sensazioni, perché a questo servono. Sono come piccole scatole che, se le guardi con gli occhi giusti, si aprono e liberano il loro palpitante senso originario. Questo dovrebbero essere. Silvia così, ha ripensato alle poche parole che aveva scambiato con l’edicolante pochi minuti prima, alla signora che aveva incrociato e a cui ha detto “Buongiorno”. Improvvisamente si è sentita così stupida, perché per lei quelle parole erano solo suoni privi di significato e fiato sprecato. Le sono tornate in mente, tutte insieme, come una folata di foglie secche, tutte le volte che aveva usato parole belle come; “albero”, “mare” o “fiume”, “bocca”, “tette” o “sorriso” senza preoccuparsi del fatto che, ciò che le era accaduto, le aveva svuotate completamente del loro senso. Non era stata capace di difenderle, di curarle, di tenerle al caldo e al riparo dai colpi. E ora non restava più niente. Tanto valeva smettere di parlare per non violentare più nemmeno una parola, nemmeno un suono inventato per schiudere e liberare un palpito di vita. Se in lei non c’erano più palpiti, tanto valeva prendere quel vocabolario e sfogliarlo, pagina per pagina, sfilare dalla lingua ogni parola e rimanere infine muta. E fu così che fece. Prese il dizionario, lo infilò in uno zaino e si incamminò verso il bosco. Si era rintanata in un ricovero attrezzi che stava al centro di un terreno di proprietà della sua famiglia. Quando era bambina ci andavano qualche volta a fare un pic-nic la domenica o a raccogliere le ciliege ma, da quando era morto il nonno, nessuno si era più curato neppure di tagliare l’erba. È quello che Silvia ha fatto il primo giorno. Ha tagliato l’erba, l’ha ammassata vicino ad un forno rudimentale che usavano per abbrustolire il pane e ho bruciato l’erba secca che aveva tagliato. Il secondo giorno è scesa al paese, ha fatto provviste, acquistato il necessario per riparare il capanno, speso gli ultimi soldi e le ultime parole. Il terzo giorno ha riparato le assi del tetto che al mattino facevano passare la luce e avrebbero fatto piovere in casa al primo temporale estivo. Ha aggiustato i cardini della porta che ora finalmente si chiudeva come si deve e ha fabbricato una zeppa per la branda che ora non ballava più. Il quinto giorno finalmente ha potuto dedicarsi al lavoro per cui era lì. La mattina, prendeva il vocabolario, leggeva le parole, le cancellava e si impegnava a non dire quelle parole mai più. Nel giro di due mesi aveva cancellato tutte le parole ed era muta. Quando l’estate stava per finire e i colori di fronte a lei stavano cambiando, sentì la necessità di dare un nome a quello che vedeva. Ha riaperto quindi il suo vocabolario e con una gomma ha cancellato le righe che aveva tracciato sulle parole che, ora, le servivano. Osò insomma pronunciarle ancora. Il loro suono ora era denso e scivolavano sulla lingua come una bevanda calda in un giorno di neve. Mano a mano che il tempo cambiava, le parole che le servivano aumentavano ed Silvia continuava a riportare parole alla vita. Non appena la nuova primavera si fece sentire il suo vocabolario era di nuovo pieno di parole da leggere, fatta eccezione per alcune che indicavano tecnicismi che, probabilmente mai le sarebbero serviti. Era ora di tornare a casa e rimettere il vocabolario dentro la sua libreria. Tutte le parole erano state rianimate.
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