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Fellini degli spiriti

10/20/2021

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Federico Fellini non ha mai raccontato il nostro mondo. Sempre un altro: quello dei sogni, quello degli spiriti, quello ricordato, immaginato, desiderato. Mai quello che c’è, sempre quello che c’è stato, ci potrebbe essere, c’è ma non si vede. Soprattutto da un certo punto della sua vita in avanti, ha cercato un buco nel mondo che immettesse dall’altra parte, come dice uno dei suoi personaggi, e ci sono aneddoti della sua vita che danno l’impressione che quel passaggio lo abbia intravisto, abbia aperto una piccolissima crepa che abbia permesso agli elementi dei due mondi di entrare ed uscire di tanto in tanto. Soprattutto da quando ha iniziato a frequentare Ernst Bernhard, uno psicologo junghiano presso cui starà in terapia tanti anni.
È lui a suggerirgli di tenere un quaderno accanto al letto, per annotare i suoi sogni, appena sveglio. Forse è da lì che la minuscola crepa rimane aperta, giorno e notte. Chi lo ha conosciuto racconta di un uomo cortese, dal sorriso ironico, con una scintilla furba in fondo agli occhi che non sempre era qui, non sempre abitava questo mondo. Anche il grande amore della sua vita, Giulietta Masina, Giulietta degli spiriti, diceva che Federico qualche volta se ne andava. Era in viaggio.
E ci fu un viaggio che non intraprese mai, quello di Giovanni Mastorna. Il viaggio di Giovanni Mastorna è stata l’idea di un film che lo ha accompagnato per oltre 30 anni ma che non realizzò mai perché gli spiriti non volevano.
Il film mai girato più famoso della storia del cinema.
La storia avrebbe dovuto essere questa: un aereo attraversa una terribile turbolenza, pioggia, vento, tuoni e lampi…i passeggeri si scambiano occhiate terrorizzate. La camera inquadra alte montagne rocciose troppo vicine per lasciare tranquilli. Ma poi la situazione sembra calmarsi e l’aereo atterra in una città che ha una bellissima cattedrale gotica, sembra quella di Colonia. Il protagonista, un violoncellista, scende e inizia a camminare per questo posto che gli pare insieme famigliare e sconosciuto. Le persone parlano una lingua incomprensibile, non riesce neppure a decodificare i cartelli stradali, inizia a sentirsi a disagio, sceglie così di andarsene. e va alla stazione ma lì accade qualcosa di ancora più inquietante. Vede, fra la gente, un ragazzo, un suo vecchio amico che però non dovrebbe essere lì. Non dovrebbe esserci perché è morto molti anni prima.
A produrre questo film sarà Dino de Laurentis, non che il soggetto gli piaccia molto, teme che porti male, ma Fellini è il più grande regista del mondo, quindi si convince. A scrivere la sceneggiatura sarà Dino Buzzati, d’altro canto la storia è ispirata ad un suo vecchio racconto.
Poi però succede che, una notte, Fellini fa un sogno. Sogna che si sta recando da Bernhard per una delle loro solite sedute ma ad aprirgli c’è un ragazzo pallido, vestito di nero. Entra dentro lo studio e Bernhard è morto ma d’improvviso scatta e gli afferra i polsi.
È solo un incubo. Lo annota sul suo quaderno e non gli dà troppo peso.
Ma il 29 giugno del ’65 lo psicologo muore davvero, Fellini va a dargli l’estremo saluto e trova ad aprirgli la porta lo stesso giovanotto del suo sogno che lui non conosceva. Una spinta ulteriore che lo allontana dal film gli viene da un altro personaggio singolare che lui, di tanto in tanto, frequentava: Gustavo Rohl. Per facilità diciamo che Gustavo Rohl era un sensitivo ma in realtà questo distinto signore di Torino, è stata una delle figure più misteriose del ‘900. Comunque, Fellini va da lui, gli chiede se è opportuno fare il film e Rohl interroga quello che lui chiamava “spirito intelligente”. Chiede al regista di fissare un quadro, lui lo fa e il quadro fa una terribile fiammata. Fellini giurerà che non farà mai quel film.
Nel frattempo però De Laurentis, nei suoi studi, ha ricostruito la cattedrale, l’aereo, ha ordinato migliaia di costumi ingrigiti dalla polvere, scritturato circa 70 persone della troupe. Fellini continua a sognare. Sogna di schiantarsi con un aereo, sogna due vecchie che fanno la maglia, i cui fili sembrano il filo della vita che potrebbero tagliare da un momento all’altro. Seguono altri presagi funesti, quelli che Jung chiamerebbe “fenomeni di sincronicità”.
L’ultimo sogno si manifesta durante un pisolino. Fellini sogna il Duomo di Colonia che gli crolla addosso. Per evitarlo sognerà di fare un salto da acrobata che lo farà finire in piedi in mezzo alla stanza. È troppo. Il 14 settembre del 1966 scrive a DeLaurentis e gli comunica che rinuncia a girare il Mastorna. Parte una causa legale che va avanti fino al febbraio del ’67 quando i due fanno la pace e decidono che la produzione ricomincerà. Ma a ricominciare sono anche gli incubi, in quei giorni il quaderno dei sogni è pieno di catastrofi, strade sbarrate, fucilazioni.
Il 10 aprile 1967 Fellini si sente male, lo portano in ospedale. Sembra che debba morire, ma non muore. Girerà altri 3 film con De Laurentis ma non il Mastorna. La storia di Fellini con gli spiriti si conclude 6 mesi dopo la sua morte. Avete sentito bene, sì. Giulietta Masina morirà di notte, nell’aprile del ’94.
Le sorelle, avvisate, arriveranno all’ospedale di prima mattina. La compagna di letto della donna, dirà alla sorella: “Che strano, stanotte ho sognato che il Maestro Fellini veniva qui in reparto, come a prendere Giulietta.” “Ma pensa…”, dice la sorella. “E una cosa strana. Aveva un bambino in braccio.” Federico Fellini e Giulietta Masina persero un bambino quando aveva pochi mesi.
Lo sapevano in pochissimi.
Gli spiriti, qualche volta, tornano anche in maniera gioiosa. Prova a LEGGERE/ASCOLTARE QUI!

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Salvador Dalì è davvero esistito?

10/20/2021

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La differenza fra come ti vedi riflesso in una vetrina e come pensi di camminare, la differenza fra la voce che senti e quella che pensi di avere, la differenza fra come gli amici ti descrivono e come pensi di essere tu.
Quello che sentiamo di essere, quasi mai, corrisponde a quello che davvero siamo. La vita che sembrerebbe adatta per noi, spesso non è quella che viviamo e anche quando siamo più o meno soddisfatti c’è sempre qualcosa che manca, che ci sfugge, che sfuma. 
Sbattiamo sempre contro limiti, barriere, pregiudizi che limitano la manifestazione di noi.
Ma è esistito un uomo che la sua vita se l’è costruita esattamente come voleva. 
Ma c’era un trucco però, la vita non era la sua, era quella di un altro, per questo è riuscito a giocarci, a piegare la realtà e il tempo, come fossero orologi molli, alla sua volontà, a rovesciare i suoi sogni dentro le giornate sue e degli altri, ad abbattere la barriera fra quello che si può e quello che non si può.
Il trucco va in scena nei primi anni del ‘900. Il nostro protagonista muore a due anni. Eh già. E poi rinasce, 9 mesi dopo. Ora può prendere la vita di quell’altro bambino e, visto che non è la sua, viverla, maneggiarla, giocarci, con tutta la disinvoltura di chi in realtà non c’è.
Un bambino, di nome Salvador Dalì, nasce nel 1901 e muore nel 1903, i suoi genitori, forse per alleviare il dolore, concepiscono un altro bambino che nasce a maggio del 1904 e lo chiamano ancora Salvador Dalì. 

Oggi si direbbe che Dalì costruisce il suo personal branding ed in parte è così, i soldi non gli hanno mai fatto schifo, addirittura firmò opere di emeriti sconosciuti come proprie per poterne far crescere il prezzo e guadagnare di più.
Ha lavorato anche per aziende, l’oggetto inutile per Alberto Alessi, le bottiglie rosso antico, la margherita gialla per il chupa chups, è vero che i suoi baffi, fotografati da Philippe Halsman, sono una specie di marchio e i suoi abiti eccentrici divise, le sue provocazioni trovate pubblicitarie ma c’è di più.
C’è un personaggio che è sempre in scena, non è mai un uomo, è sempre un personaggio, un artista, un truffatore, che poi forse sono la stessa cosa. 
I suoi occhi, i suoi atteggiamenti, le sue performance sono un continuo gioco di chi ha avuto il coraggio di fare della sua vita un gioco fino alle estreme conseguenze. 
Come quando si presenta a Londra ad una conferenza con due levrieri russi al guinzaglio e uno scafandro da palombaro sul capo, rischiando di soffocare.
Ci vuole coraggio a fare sempre teatro senza mai, mai, mai, far scorgere a chi ti guarda che uomo c’è dietro quello sguardo allucinato, fino a domandarsi: ma l’uomo c’è? La vita che sta vivendo esiste? O è tutto un sogno? 
La vida es sueño, d’altronde, diceva Garcia Lorca, suo grande amico. 
L’unica differenza fra me e un pazzo, dichiara, è che io non sono pazzo.
Dalì che costruisce il suo proprio museo mentre è in vita, Dalì espulso dalla scuola d’arte perché ritiene che nessun professore sia all’altezza di giudicarlo, Dalì che, in seguito ad un malore, mentre è in clinica, se la prende con la natura, con Dio, perché si sono messi in mezzo alla sua creazione, alla sua trama, alla narrazione. 
Perché i geni non devono morire, i geni non muoiono.
Lui non aveva immaginato di stare male, non era nella sua sceneggiatura, quindi è un’insolenza della natura.
Dalì che, quando gli chiedono cos’è il surrealismo, lui risponde: “El surrealismo soy yo”.
E forse questa è la cosa più sincera di tutte. Il surrealismo è lui perché per lui la vita è una tela dove la realtà non ha nessun peso. Nulla è reale. Esiste e vive solo quello che lui inventa, solo quello che lui vede, solo quello che lui mostra.
D’altro canto, come più di una persona disse conoscendolo, era una delle persone più egocentriche mai viste.

Sicuramente non era una persona facilissima ma che coraggio, che arte, quella di abitare i propri sogni così forte da farli vivere in mezzo alla realtà visibile, quella di tutti, che maestria nel creare da zero la sua opera d’arte meglio riuscita. 
La vita stessa di Salvador Dalì.
E quando se ne va, in modo teatrale ovviamente, per un attacco di cuore mentre ascolta  Tristano e Isotta di Wagner chissà se per un attimo ha pensato: “Li ho presi tutti per il culo” oppure “Chissà se mi hanno capito”.
Ma non credo perché “non è necessario che il pubblico sappia se sto scherzando o se sono serio, né è necessario che io lo sappia”.
Vuoi LEGGERE/ASCOLTARE la storia di un altro grande artista? CLICCA QUI!

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