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San Giorgio e la lucertola

7/22/2021

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Combattere I draghi è un lavoro usurante. Si ha diritto ad una pensione anticipata, generosa e a cure mediche gratuite. Nonostante questo, San Giorgio, il momento di ritirarsi lo aveva posticipato il più possibile ma ad un certo punto era arrivato.
La vista gli era calata un po’, la cervicale si faceva sentire e anche le ginocchia scricchiolavano se non vedevano il sole per un po’. E a cacciar draghi è sempre questione di antri umidi, grotte ombrose, cascate bagnatissime e precipizi verticali.
Dunque San Giorgio si era ritirato nella sua grande villa a strapiombo sulle scogliere di fronte ai mari del nord. Freddo sì ma secco, fatta eccezione per le nebbie del mattino.
Lunghi corridoi con teste di drago come trofei, ampie stanze da letto tutte drappeggiate, enormi vetrate e gigantesche sale da ricevimento con la tappezzeria in broccato che però, purtroppo, non ricevevano mai nessuno.
Gli amici d’infanzia non erano diventati eroi come lui, erano tutti geometri, bancari, salumieri, fisioterapisti…per forza di cose aveva smesso di frequentarli da anni. Quelli che invece, come lui, avevano intrapreso la carriera eroica, ad un certo punto, si erano sposati con principesse risvegliate, salvate da una torre, liberate dalle grinfie di qualche demone e ora avevano due o tre bambini che, in quanto figli di eroi, erano piuttosto vivaci e star loro dietro richiedeva tempo ed energia.
Lui che per anni, per non dire secoli, era stato l’eroe più eroe di tutti, si era fatto assorbire dal lavoro, adorava cacciare draghi, e si era fatto instupidire dalle lusinghe adoranti delle donzelle, passando di fiore in fiore senza accasarsi mai e ora quegli anni, o forse secoli, che ancora aveva da vivere gli sembravano più difficili da affrontare di un mostro sputafuoco.
Finché, in una mattina estiva, appena la nebbia si era diradata, vide qualcosa sul muricciolo di cinta del giardino sud. Una bestia verde piena di squame strisciava verso di lui e sembrava fissarlo con i suoi demoniaci occhi rossastri.
Per un attimo San Giorgio si sentì impietrito ma fu questione di un solo attimo. Con un guizzo dei suoi tempi migliori afferrò una specie di alabarda che usava come fermaporta e si scagliò contro l’immondo animale. Non appena però mise piede in giardino e fece per dirigersi in quella direzione, quel demone ributtante si infilò in una fenditura della roccia e sparì alla sua vista. Rientrò in casa e prese due pastiglie per la pressione, il cuore gli batteva all’impazzata ma, nonostante lo spavento, sentì che il sangue correva come nei fantastici giorni di gloria e tornò a sentirsi vivo, giovane e forte. Guardò il suo volto cadente riflesso nella teiera. Il viso era vecchio ma lo sguardo ancora fiero.
Giurò a sé stesso che avrebbe combattuto quella bestiaccia a costo della vita, fosse stata l’ultima azione della sua esistenza, avrebbe liberato il mondo da quella spaventosa creatura. Con tutta probabilità, pensò, in quella caverna in cui era sparita teneva prigioniera una fanciulla il cui destino era segnato, se lui non fosse intervenuto.
Pianificò per giorni e giorni, fino a che si sentì pronto per mettersi in caccia. Scese alle stalle e slegò il suo cavallo. Quello che era stato uno splendido puledro dal manto candido, ora era un vecchio ronzino dal pelo beige e dal passo stanco.
Non aveva importanza! Avevano vissuto insieme mille avventure, avrebbero condiviso anche quest’ultima.
Salì in sella tentando di ignorare un sinistro concerto di mille scricchiolii delle sue ossa e, forse, anche di quelle del suo amato destriero. Prese l’alabarda e si mise a pattugliare il giardino sud in attesa del mostro che si rivelò solo dopo due giorni. Lo vide spuntare e abbatté la sua alabarda sulla roccia.
Il demone si rintanò ancora negli anfratti della sua viscida caverna.
“Vigliacco!”, urlò San Giorgio, “Esci, mostrati, combatti!”
Per quasi un mese la creatura luciferina spuntò altre e altre volte e sempre San Giorgio tentò di ingaggiare un duello ma sempre essa tornò a ripararsi fra le sue rocce. Nel giardino sud tutte le fioriere erano disintegrate, qualche vetro della portafinestra cadde sotto i colpi della veemenza di San Giorgio, il ronzino aveva mangiato gran parte dell’erba e laddove c’erano vialetti di sassolini bianchi e vasi di gerani, c’era ora un bivacco di soldati. Un giorno arrivò una donna. Era la sorella di San Giorgio, avvertita dalla vicina, allarmata dai rumori e dal disordine.
“Che succede?”, chiese lei.
“Sto cacciando un drago.”, disse lui.
“È solo una lucertola.”, disse lei gettando un’occhiata sul muretto a secco ormai semidistrutto.
Il povero San Giorgio, dopo una vita a cacciar draghi, proprio non ce la faceva a non avere qualcosa da combattere ed allora se l’era presa con una minuscola lucertola.
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Rombo di Tuono

7/15/2021

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Rombo di tuono è il nome di un eroe omerico, di un guerriero acheo, che ne so, come Achille, Patroclo, Agamennone.
Però gli eroi, per essere tali, non devono essere solo forti, coraggiosi, belli…devono anche essere umani, devono cadere e rialzarsi, devono fare scelte difficili, devono rendere onore agli sconfitti. Non devono essere solo Ulisse o Achille ma anche Ettore o il Galata morente.
Adesso vi racconto la storia di un eroe omerico moderno. Vi racconto di Gigi Riva.
Un bambino che non parte con il piede giusto, perde entrambi i genitori e il suo carattere si fa duro, come certe scogliere a strapiombo sul mare, belle senza fronzoli, dure ma con un panorama che ti toglie il fiato. Adesso perciò ha bisogno di una terra così, che lo adotti, una terra che gli somigli, una terra che lo accolga come se fosse Itaca. Ed è proprio un’isola che lo fa, non è Itaca ma è la Sardegna e, in quanto a luoghi magici e mitici, non ha niente da invidiare all’isola di Ulisse, Penelope, Telemaco e Argo. E lì, rombo di tuono, fa quello che fanno gli eroi. Vince uno scudetto con il Cagliari, il primo e unico nella sua storia, mette Cagliari e la Sardegna sul tetto d’Italia, un’impresa insomma, eroica appunto.
I quattro mori sorridono e ogni minuscola, sperduta casa in Sardegna, ha la sua fotografia. Ogni casa, dalla Gallura, all’Ogliastra, dalla Barbagia al Sulcis-Iglesiente, ogni sardo ha un amico in più, un parente, un figlio. I pastori lo invitano a pranzo, le donne lo venerano e i bambini dentro di sé sognano di essere i figli illegittimi di Rombo di Tuono che siccome è una divinità, magari, pensano, ogni tanto scende dall’Olimpo e fa come Zeus.
Ma lui non è così, è un ragazzo tranquillo che parla pochissimo e che ha qualche ferita che rimane lì e ogni tanto sanguina.
La Juve lo vuole disperatamente, Boniperti gli spunta da tutte le parti, lo vuole portare a Torino, a qualunque costo, a qualunque prezzo ma Ulisse deve tornare a Itaca e Rombo di Tuono deve stare in Sardegna, perché, dice lui, “un’isola mi ha adottato, mi ha dato una casa, la famiglia che avevo perduto, simpatia, affetto, aiuto…e adesso me ne vado a tanti saluti? No. Non mi sembra giusto.”
È stato sempre a Cagliari e allora perché è così amato da tutti gli italiani?
Perché è un eroe, certo, per aver indossata la seconda pelle della nazionale, per essersi rotto tutto contro l’Austria, per aver fatto parte della mitica Italia-Germania 4 a 3, per aver accompagnato tanti ragazzi, visto che è stato nello staff della nazionale per tanti anni, anche nel 2006 quando arrivando al circo massimo, visto che qualche membro delle istituzioni voleva prendersi meriti che non aveva, fa fermare il pulman e torna a casa a piedi mentre tutto il paese festeggia, ma forse, più di ogni altra cosa, per una notte romana, una notte romana che stava per perdere perché nel 1967 si fa male, peccato, perché nel 1968 ci sono i campionati europei a Roma. Ma gli eroi, abbiamo detto, si rialzano e lui si rialza.
Non è ancora al massimo però e si siede in panchina, anche nel corso della finale, contro la fantastica Jugoslavia di Dragan Zajc. 1 a 1 alla fine. Allora si ripeteva la partita, due giorni dopo. E due giorni dopo Valcareggi dice a Gigi Riva che tocca a lui e quando scendono in campo gli eroi succede sempre qualcosa di speciale. Lui porta in vantaggio gli azzurri, Anastasi fa il 2 a 0 e alla fine della partita, spontaneamente, il pubblico di Roma arrotola e dà fuoco ai giornalini illustrativi che erano stati distribuiti prima della partita. Lo stadio è una fiaccolata commovente che incendia il cielo di Roma. Dopo 30 anni l’Italia torna a vincere e lo fa con la sguardo fiero e triste di un eroe omerico, Rombo di Tuono.
Domenica scorsa, 11 luglio 2021, dopo 53 anni, quella stessa coppa è tornata a Roma.
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Sir Ernest Shackleton o dell'audacia

7/8/2021

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Spedizione Endurance, anche conosciuta come spedizione imperiale trans-antartica.
Obiettivo: attraversare l’Antartide via terra e a piedi con slitte trainate da cani.
Distanza da coprire: 2900 Km.
Distanza media prevista: da 24 a 32 Km al giorno.
Durata della spedizione esplorativa: da 3 a 4 mesi.
 
Tutto è pianificato con grande attenzione, da una parte c’è l’”Endurance” comandata da Shakleton, che punta ad arrivare alla baia di Vahsel per poi proseguire a piedi.
Dall’altra parte del continente l’”Aurora”, comandata dal Aeneas Makintosh, dal canale MacMurdo sulla costa del mare di Ross, avrebbe provveduto a predisporre dei depositi di cibo e carburante.
L’avventura però fallisce ancora prima di partire, il 21 novembre del 1915.
Il pack, cioè la banchisa di ghiaccio del mare di Wedell, si stringe intorno allo scafo della Endurance, lo stringe come una tenaglia, la nave diventa ingovernabile e il 21 novembre del 1915, dopo 281 giorni dall’incagliamento, la pressione del ghiaccio la fa inabissare all’altezza del 70º parallelo latitudine sud.
È qui che inizia l’avventura vera, terribile e inaspettata, che trasforma un viaggio temerario in una epopea, uomini coraggiosi in eroi.
I 28 membri dell’equipaggio di Sheckleton, con provviste limitate e ad una temperatura che oscilla fra i -22 e i -45 gradi, sopravvivono, attendono, dormendo sul ghiaccio che qualcuno arrivi a salvarli ma l’orizzonte è bianchissimo oppure nero come la pece oppure grigio come un sepolcro ma sempre immobile, nessuno arriva.
Shekleton perciò, allo stremo delle forze, con tre scialuppe di fortuna, naviga, in qualche modo, con tutto l’equipaggio, in direzione dell’aurora boreale e riesce ad arrivare all’isola di Elephant, un’isola disabitata delle Shetland meridionali.
Da qui, con una sola scialuppa e solamente 7 uomini salpa ancora in direzione delle magnifiche luci dell’aurora boreale, nel tentativo disperato di raggiungere una base baleniera nella Georgia del sud, dotato solamente di un sestante e di un cronometro in uno dei mari più pericolosi ed inospitali che esistono sul nostro pianeta.
Riesce a percorrere 1600 chilometri e attracca a Grytviken.
Da qui riorganizza una spedizione per tornare a prendere i suoi uomini ad Elephant Island e con suo grande orgoglio, nessuno dei componenti del suo equipaggio morì nell’attesa, Shakleton riportò tutti a casa.
La storia potrebbe finire qui ma c’è un’appendice che mi piace sottolineare, di cui quasi nessuno parla mai.
Vi ricordate l’”Aurora”? La nave che dall’altra parte del continente avrebbe dovuto organizzare i punti di rifornimento per gli esploratori?
Anche a quella le cose non andarono bene.
Una tempesta in Antartide ruppe gli ormeggi della nave e 10 uomini dell’equipaggio non fecero in tempo a risalire a bordo e furono abbandonati al polo sud, con poche scorte e senza abiti di ricambio per quasi 20 mesi.
Shackleton, sempre lui, il nostro simbolo di coraggio, audacia e amicizia, arrivato in Nuova Zelanda fu avvisato che il gruppo del mare di Ross si trovava ancora fra i ghiacci.
Salpò per prestare loro soccorso e una settimana dopo raggiunse capo Evans dove 7 sopravvissuti, in questo caso purtroppo non tutti, furono recuperati e trasportati fino a Wellington.
Sir Ernest Shakleton morì di infarto il 5 gennaio del 1922 ma non nella sua Inghilterra ma a Grytviken. Il suo porto sicuro, un minuscolo villaggio affacciato su un mare glaciale che lui ha solcato sempre nella direzione giusta e, con la pace dei giusti, io spero e amo immaginare, lì a chiuso gli occhi.
Se ti piacciono le storie di mare e avventura, prova a LEGGERE/ASCOLTARE anche questa storia!


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Il brutto anatroccolo o "Zampa di cicogna"

7/1/2021

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C’era una volta un brutto anatroccolo, figlio di una lavandaia e di un ciabattino, è solitario, lo chiamano zampa di cicogna perché è troppo alto, troppo magro, con le gambe troppo lunghe, sgraziato, brutto… Lavora in una fabbrica di tessuti ma ha grandi ambizioni, non vuole passare tutta la vita a vedere sua madre stentare, a fare quel lavoro di merda e a nascondersi sugli alberi perché gli altri ragazzi lo tormentano.
Non frequenta quasi nessuno, sta spesso in compagnai di suo padre che ama i libri e gli racconta storie e in compagnia del responsabile degli spettacoli del teatro che, in cambio di qualche aiuto, lo fa entrare e gli permette di vedere gli spettacoli.
Gli piace stare lì come gli piace accompagnare la nonna a trovare il nonno al manicomio. È pieno di gente strana che crede di essere qualcosa che non è. Gente particolare destinata a vite eccezionali, come tanti piccoli soldatini di stagno, come tanti attori sul palcoscenico.
Gli piacerebbe fare l’attore ma forse di più gli piacerebbe fare il cantante, pensa, diventerà famoso, farà un sacco di soldi. Gli piace scaldarsi con la fantasia come la piccola fiammiferaia perché la realtà da vedere è dolorosa.
La madre per dissuaderlo lo porta da una chiromante che però, al contrario, dopo aver letto il suo futuro nelle carte, lo incoraggia con una profezia della quale è certa: questo anatroccolo diventerà un grande uomo, un cigno, e in suo onore, questo paese, verrà illuminato.
Hans, perché così si chiama, a 14 anni, se ne va in città. A Copenaghen.
I tentativi artistici non vanno granché, presto si ritrova a fare il garzone ma per un caso di quelli che accadono nelle favole conosce il re di Danimarca che gli permette di frequentare una prestigiosa scuola di grammatica e latino.
Pubblica un primo libro che viene molto apprezzato. Apprezzato anche da una ragazza bellissima. Lui se ne innamora, la vede leggera e magnifica come una ballerina di carta ma questa ragazza è già fidanzata, ne soffre ovviamente, ma il cuore di stagno di Hans batterà ancora per una cantante lirica svedese; le chiede di sposarlo, ma ancora una volta viene rifiutato come quell’imperatore cinese che, senza il canto di un usignolo, quasi moriva di tristezza.
Continua a scrivere moltissimo Hans: teatro, romanzi e tantissime fiabe. Viaggia.
Nel 1838 la Danimarca gli riconosce un vitalizio come scrittore e, poco dopo, anche una sovvenzione regia. Ora è una celebrità nazionale, la profezia si è avverata ma quando sei nato nel cortile delle anatre, senti sempre di non essere abbastanza, non è mai sufficiente.
Ce lo testimonia un episodio. Hans, che a questo punto avrete capito è Hans Christian Andersen, conosce Charles Dickens e diventano amici. Dickens ha una grande ammirazione per lui e i due si scriveranno moltissime lettere per oltre 10 anni fino a quando Dickens ha la malaugurata idea di invitarlo per due settimane a casa sua, nel Kent. Appena arriva vorrebbe farsi rasare dai figli di Dickens secondo una tradizione danese. Dickens lo manda dal barbiere. Una sera vanno a teatro dove si metterà in scena una sua opera, c’è anche la regina Vittoria con il marito Albert. I Reali sanno della sua presenza ma non lo incontrano. Lui tiene il muso per giorni.
Poi Andersen legge una recensione negativa e, per oltre un’ora, si rotola in giardino piangendo ed imprecando, sotto gli sguardi attoniti della famiglia che lo sta ospitando. Quando finalmente se ne va, dopo oltre un mese, Dickens non risponderà mai più ad una sua lettera.
La sua voglia di rivalsa non si placa, si sente sempre più solo e quel vuoto che il brutto anatroccolo sente non si può riempire con il rispetto ma solo con l’amore che neppure le centinaia di candele accese quando, dopo molti anni, fa visita al suo paese, riescono ad accendere.
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