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Elf on the shelf

12/15/2022

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Io sono un appassionato di leggende.
Secondo me, dentro le leggende, nella mitologia, ci sono un sacco di indicazioni, suggerimenti, segreti di quel che siamo stati, di quel che siamo e di quel che in noi è eterno e quindi, sempre ci sarà.
Le leggende spesso affondano le loro radici in tempi remotissimi, dimenticati, nebbiosi, impossibili da datare e da delineare con chiarezza.
Delle leggende più affascinanti mi so no sempre chiesto: chissà quando questa storia è stata raccontata per la prima volta? Da chi e perché? Chissà attraverso quali peripezie è arrivata fino a noi?
Beh, ce n’è una appena nata, che sembra proprio fatta per durare ma della quale sappiamo tutto.
Nel 2005 due sorelle gemelle, le sorelle Bell, e la loro madre, Carol Aebersold fanno uscire un libro: elf on the sheld a xmas tradition.
Sostanzialmente, dopo il giorno del Ringraziamento, per noi europei facciamo dal primo dicembre, si può costruire una porticina di legno su una mensola della propria casa.
Le mini-porticine, come è noto, hanno poteri magici e questa in particolare, è in grado di creare un corridoio espresso fra casa vostra e il laboratorio di Babbo Natale.
Una volta creato questo gate, un elfo si mette in marcia e, presto o tardi, a seconda del traffico, arriva a casa vostra.
Il suo compito è da vero agente segreto: si occupa di monitorare i bambini per poi riferire al principale in Lapponia, che se non fosse chiaro, è Santa Claus, se i pargoli meritano o meno i regali che hanno richiesto nella letterina.
Detto così sembra un compito da spione antipatico ma, a dar retta a quel che si dice in giro, gli elfi sono estremamente clementi, anche perché, sempre secondo tradizione, nei giorni in cui frequenteranno la vostra casa, non faranno meno casini di quanti ne facciano i vostri figli.
Quindi, anche per onestà intellettuale, non è che si possono mettere a fare gli spioni precisini.
Gli elfi ce l’hanno proprio come caratteristica quella di rovesciare la farina o nascondere il barattolo del caffè, finire le caramelle o mischiarvi i calzini nei cassetti.
Se vi da fastidio, inutile mettere la porticina di legno, ecco.
Insomma Elf on the shelf, che è un pendolare, ogni notte, torna al polo nord e fa un dettagliato report a Babbo, si beve una tazza di cioccolata, dorme un paio d’ore e poi torna a casa vostra, sulla mensola che avete voluto dedicargli.
Unica accortezza, la notte di Natale è bene sincerarsi di aver lasciato la porticina di legno aperta, altrimenti, il corridoio magico si chiude e l’elfo disgraziato non può tornare a casa e vi rimane in casa fino a ferragosto, periodo dell’anno per il quale è totalmente inadeguato.
Ricordatevelo, altrimenti, si irrita e lascia la porta aperta ai ladri.
Ovviamente quest’ultima parte me la sono inventata io, nel libro non c’è e non c’è neanche nei cartoni animati, nei giochi e nelle storie che ormai affollano l’immaginario dei bambini di tutto il mondo.
Ma le leggende sono così.
Chissà che, fra 200 anni, qualcuno intercetti la mia aggiunta e la prenda per buona, andando ad aggiungere un pezzo ad una leggenda che magari nessuno ricorderà da dove è partita.
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Il poeta che ha perso le rime

12/15/2022

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Era il primo dicembre di un anno dimenticato e il poeta ancora non trovava la rima.
Aveva scritto la poesia più bella che si fosse mai sentita su tutta l’isola.
Di nascosto, aveva fatto leggere le bozze allo stregone, raggiungendolo nella grotta. Il vecchio era tutto rincantucciato in fondo perché in quella stagione, le onde entrano dentro e bagnano pentole e stracci.
Era bastato leggerne un verso ad alta voce che il mare era tornato al suo posto e il vento aveva smesso di ululare.
Come tutte le poesie vere, scritte da poeti veri, nei giorni di luna crescente, anche questa aveva il potere di influenzare la realtà.
Tornando a casa, il poeta si sfregava le mani. Sai, il potere che gli avrebbe dato quella poesia?
I contadini gli avrebbero pagato una gabella affinché la leggesse per far piovere o splendere il sole, il falegname, il sarto, il panettiere gli avrebbero regalato mobili, abiti, ceste di pane perché leggesse la poesia davanti alle loro botteghe e le donne gravide, purché leggesse la sua poesia alle pance gonfie, lo avrebbero ricoperto d’oro. Senza contare, quello che le ragazze avrebbero concesso ad un poeta capace di scovare e mettere in fila parole così meravigliose ed utili.
Mancava però l’ultima rima, dell’ultimo verso. Cosa importante, perché una poesia, per quanto bella, per quanto potente, senza l’ultima rima dell’ultimo verso, è come un coltello senza il manico, uno strumento efficace ma che non si può maneggiare.
Ed anzi, diventa uno strumento pericoloso, perché non sai se taglierà la corda che ti lega o se ferirà il cuore che ti tiene in vita.
Tutto questo succedeva alla fine dell’estate e al primo dicembre, niente da fare, l’ultima rima dell’ultimo verso non c’era ancora e il tempo cominciava a scarseggiare.
Come sanno tutti quelli che scrivono poesie miracolose, se il lavoro non è finito entro il solstizio d’inverno, il giorno in cui la luce vince sul buio, massimo massimo per la vigilia di Natale, allora non c’è niente da fare, quella poesia diventa inservibile, tanto vale buttarla nel camino e ricominciare da capo.
Proprio davanti al camino, proprio davanti alle fiamme, proprio pensando ai suoi versi in cenere, il poeta pensò che non si poteva permettere di fallire, tutti quei privilegi già lo ingolosivano, pensò che era inutile scervellarsi per la rima perfetta, bastava una rima qualsiasi per togliersi il pensiero.
Ma anche una rima qualsiasi non gli usciva. Si era talmente stressato alla ricerca della rima perfetta che ora gli si era asciugato tutto il serbatoio delle parole.
Poco male. Il giorno successivo gli venne un’idea imprenditoriale.
Andò da un artigiano, da un contadino e da un armaiolo dicendo che, se gli avessero anticipato una certa cifra, si sarebbero accaparrati la prima lettura.
Incassata la somma richiesta, se ne andò al mercato e, camuffandosi da monaco, comprò, al banco delle rime 6 finali perfetti nuovi nuovi, ancora freschi. Per maggiore sicurezza si fece dare anche un sacchetto di assonanze sfuse appena uscite dalla macchina.
Arrivato a casa, provò ad incastrarle una ad una alla fine della sua meravigliosa poesia e, dopo un paio di ripensamenti, scelse una rima ricercata, una parola obsoleta, piena di ghirigori che lo avrebbe fatto sembrare un poeta non solo ispirato, non solo sensibile, non solo talentuoso ma pure cólto.
Quando si trattò di leggerla in pubblico, sulle prime, bambini, donne e uomini del villaggio sembrarono rapiti ma con grande disappunto di tutti, si capì ben presto che non solo la poesia non restava in mente e non lasciava nell’animo quella scia di languore che le poesie miracolose lasciano, ma che, catastrofe delle catastrofi, non faceva i miracoli.
E, come capirete, una poesia miracolosa che non fa miracoli, vale tanto come un calzino bucato o un ombrello che lascia passare la pioggia.
La realtà restava esattamente com’era prima, né migliore, né peggiore, anche se, viste le aspettative, sembrava peggiore.
La notte di Natale il poeta si trovava ancora di fronte al camino, questa volta spento però. I soldi che aveva dovuto restituire lo avevano lasciato sul lastrico e non poteva permettersi né legna, né regali, né addobbi, solo una minestra scialba di verdure bollite.
E così si sentiva lui, scialbo e scolato come una zuppa malriuscita.
Lo scrisse di getto per togliersi quel pensiero dal cuore, lo scrisse senza alcuna pretesa o aspettativa, lo scrisse sinceramente e senza ghirigori.
Gli uscirono tutte le rime e si ritrovò inaspettatamente sul quaderno di nuovo una poesia miracolosa.
Quindi la usò. Per far comparire il fuoco nel camino, le luci sull’albero, il cibo sulla tavola e gli amici sulle sedie.
Il giorno dopo, pensò, che era giusto Natale, quella stessa poesia, la avrebbe regalata a tutti.
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Claudio Tamburrini

11/14/2022

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Tra pochi giorni inizierà il mondiale in Qatar, un mondiale molto criticato per il mancato rispetto dei diritti umani del Paese ospitante, ribadita anche pochi giorni fa da Khalid Salman, ambasciatore della manifestazione, con una progressista dichiarazione sull’omosessualità.
In molti si sbracciano a dire che lo sport non dovrebbe avere a che fare con la politica, la verità è che non è così, lo sport è stato sempre politica, cosa che non migliora il giudizio, anzi lo peggiora.
Per questioni economiche, siamo e siamo stati disposti a passare sopra a schifezze di ogni tipo, purché i riflettori si accendessero e i coriandoli bianchi nevicassero in campo.
Uso questa immagine perché è stata questa l’immagine venduta al mondo del mondiale di Argentina del 1978 quando la dittatura di Videla sequestrava, torturava e faceva scomparire centinaia di ragazze e ragazzi prima e durante le imprese calcistiche di Mario Kempes.
Uso questa immagine perché dopo che in plaza de Mayo ho visto madri diventate nonne sfilare con fazzoletti bianchi sui capelli, per chiedere in silenzio e con dignità, dopo quasi 50 anni, che fine abbiano fatto i loro figli, per me il bianco è quello dei loro foulard e non quello dei coriandoli.
Circa un anno prima del mondiale, il 23 novembre del 1977, Claudio Tamburrini, il portiere del club Almagro, viene prelevato a casa dai militari e portato alla famigerata Mansiòn Serè. Claudio ha questo difetto che, oltre a giocare a pallone, gli piace pensare, studia filosofia all’università, e chi pensa non piace a qualunque dittatura, autocrazia e probabilmente, a sentir quel che si dice, neanche all’emirato di Doha.
Non si sa se un suo compagno, un certo Tano, non abbia retto alle torture delle milizie o se semplicemente gli abbiano trovato il suo nome sull’agenda, tanto poco bastava, quello che si sa è che lo tormentano per quasi 120 giorni, senza formalizzare un’accusa, senza spiegargli nulla, senza ovviamente dirgli che fine fanno i suoi compagni di prigionia che ogni tanto spariscono e non tornano più.
Il 24 marzo del 1978, Claudio, con i suoi compagni di cella, Fernandez, Carlos Garcia, Daniel Rusomano, danno vita ad una rocambolesca fuga, si calano nudi da una finestra, appesi a lenzuola strappate, lui lascia, a sberleffo, una scritta su un muro, dedicata al suo torturatore, poi corrono,
una donna da loro rifugio, li veste con abiti del marito, lui si rifugia in una cantina, vive da latitante e il 25/6/1978 vede da un televisore di calle corrientes Ubaldo Fillol alzare la coppa del mondo sotto una pioggia di coriandoli bianchi.
E forse è stato persino contento perché alla fine il calcio fa tornare bambini, lo si guarda, lo si gioca, se ne parla senza pensare al resto, perché è un gioco, è cosa da bambini che ogni tanto i grandi usano per fare schifezze.
E anche stavolta sarà così, guardaremo le partite in Qatar con gli occhi dei bambini, pure se l’Italia non c’è, pure se dietro è un gioco di politica, di soldi, di sopraffazione e di tante altre schifezze.
Oggi Claudio Tamburrini è professore di filosofia all’università di Stoccolma, dove è fuggito dopo il periodo di latitanza. È tornato in Argentina solo una volta da allora per testimoniare al processo alle giunte militari.
Ad oggi è l’unico calciatore professionista desaparecido. Uno dei pochissimi sequestrati che siano tornati.
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Puškin e Arina Rodionovna

11/14/2022

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Puskin per i russi è più di quello che Dante è per gli italiani. È una cosa che quando i russi leggono i suoi versi si commuovono.
È vero che in Russia la poesia è una cosa talmente seria che in molti pensano influenzi la realtà. O almeno era così, adesso chissà. C’è stato però un tempo in cui i giovani si riunivano per leggere i passi dei loro libri preferiti e questa roba era cool.
La poesia cool è difficile da pensare oggi, che peccato.
Comunque Puskin è il padre di tutti perché ha regalato alla Russia una letteratura sua che prima non c’era.
I libri si leggevano in francese e i colti scrivevano in francese e il russo non aveva manco le parole per dire cose che non fossero quotidiane, non ce le aveva, almeno da quando Cirillo e Metodio si sono inventati i caratteri. I russi insomma, se si trattava di scienza o politica o filosofia, pensavano proprio in francese.
Poi è successo che l’autunno del 1824 Puskin lo passa a Michajlovskoe, dove la famiglia aveva una tenuta, poco lontano da Pskov.
E qui passa molto tempo in compagnia di Arina Rodionovna, che era stata la sua njanja, cioè la sua nutrice. Era frequente allora che con le balie, che erano serve della gleba, si mantenessero poi rapporti anche in età adulta.
Beh, lì a Pskov succede che Arina, analfabeta, che mai ha preso in mano un libro in vita sua, a Puskin racconta di nuovo le favole che gli raccontava da bambino delle quali gli rimanevano solo frammenti, ricordi confusi, pezzetti.
E Puskin, già 25enne, quando la sera ascolta la sua Njaja richiamare alla memoria quelle storie e soprattutto farlo con quella lingua bellissima, che non è quella dei libri, è quella della terra e della strada, rimane incantato.
C’è una potenza dentro le parole che brucia come il fuoco e ghiaccia come il gelo della steppa.
E allora Aleksandr Sergeevič Puškin pensa che, con quelle parole, bisogna raccontare le storie che, quelle parole sono martelli e chiodi giusti per costruire una storia che stia in piedi e sia solida e violenta e intensa. Che con quella lingua si può fare ridere, piangere e tacere.
Così Puskin ha riorganizzato una lingua e creato una letteratura che prima non c’era e adesso è considerata una delle più belle del mondo ed è un gran peccato non sapere il russo perché tutti dicono che, essendo un poeta, per quanto sia bella la traduzione, si sfarina l’incanto delle sue parole, che, alla fine, a ben guardare, erano le parole di una contadina analfabeta che si chiamava Arina Rodionovna.
Oggi a Pskov, in mezzo ad un parco, c’è una statua che raffigura il grande poeta e, seduta accanto a lui, con gli stivali e un tabarro scuro, c’è la sua njanja.
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La profezia di Poe

11/4/2022

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Halloween ce lo siamo appena lasciati alle spalle ma una storia dell’orrore era doverosa.
E credetemi, ne ho trovata una veramente ma veramente spaventosa.
È noto a tutti che uno dei più grandi scrittori dell’orrore è stato l’americano Edgar Allan Poe, uno che, se leggi i suoi racconti, inizi pian piano a sudare e ti aumenta il battito cardiaco senza che nemmeno tu te ne accorga.
Quello che vi racconto oggi però non è il suo talento letterario, è una inquietante capacità profetica.
Nel 1838 esce “Storia di Arthur Gordon Pym”, una delle sue opere. Si tratta di una storia di mare, in parte ambientata su una barca con quattro persone a bordo.
Questa imbarcazione perde le coordinate e si trova in mezzo al mare, ha perso contatto con la costa e le scorte di cibo iniziano a scarseggiare.
I giorni passano e i protagonisti sono sempre più disperati, fino a quando arrivano al punto di decidere che uno di loro deve sacrificarsi per salvare gli altri.
Tirano a sorte e la pagliuzza più corta capita in mano ad un certo Richard Parker che letteralmente offrirà le sue carni affinché gli altri possano sopravvivere.
La trama è inquietante ma, in fondo, diremmo, si tratta di un romanzo. È fiction, non è successo davvero. È quello che si dice ai bambini spaventati prima di farli addormentare, no?
Nel 1884, a quasi 50 anni dall’uscita del libro e quando Poe è morto ormai da 35 anni, uno yacht, il Mignonette, lascia le coste inglesi diretto in Australia. A bordo ci sono 4 persone.
L’imbarcazione è troppo piccola per una traversata del genere e anche non particolarmente equipaggiata e, per di più, sfortuna vuole, che tra Sant’Elena e Tristan da Cunha, viene sorpresa da una tempesta che la sbatte di qua e di là, le onde sono alte come palazzi, la chiglia si rovescia ed in breve la Mignonette affonda.
Le quattro persone a bordo non morirono nel mezzo della tempesta ma vagarono alla deriva per diversi giorni.
Soli, disperati, senza cibo, né acqua si trovarono presto di fronte allo stesso dilemma dei protagonisti dell’Arthur Gordon Pym: sacrificare uno di loro affinché gli altri potessero sopravvivere.
Uno di loro, nei momenti più drammatici del naufragio, bevve molta acqua di mare e questo accelerò in lui il malessere causato dalla disidratazione e dalla fame.
Vedendo ormai la morte vicina, si offrì per essere cannibalizzato, sacrificò la sua carne e il suo sangue perché gli altri potessero sperare che i soccorsi li trovassero vivi.
E, fino a qui, potremmo pensare ad una serie di glaciali ma ragionevoli coincidenze, se non fosse che il nome della persona che si è offerta per essere mangiata era Richard Parker.
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Katharine Gun

10/15/2022

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Katharine Teresa Harwood è orgogliosa di lavorare al GCHQ, in inglese sta per Government Communications Headquarters, Quartier generale del governo per le comunicazioni.
Tutti i giorni va nel suo ufficio a Celtenham, si versa una bella tazza di caffè, si lega i capelli, si infila le cuffie e ascolta.
È arrivata lì rispondendo ad un annuncio, cercavano una traduttrice dal mandarino all’inglese. Neanche sapeva che si trattava dell’intelligence.
Ascolta conversazioni e, se c’è qualcosa che non va, lo comunica per proteggere i cittadini del Regno Unito. Per evitare orrori, insomma.
Ha una certa dimestichezza con i popoli che orrori hanno subito, Katharine, suo marito, Yasar Gun è curdo, lei ha insegnato inglese a Hiroshima.
Il 31 gennaio del 2003 legge una mail inviata da Frank Koza della national security agency. All’interno di quella mail c’è la richiesta di partecipare ad un’operazione di spionaggio dell’amministrazione Bush, contro sei paesi del consiglio di sicurezza delle nazioni unite: angola, bulgaria, camerun, cile, guinea e pakistan. L’obiettivo è raccogliere informazioni per poterli ricattare affinché votino a favore dell’invasione dell’Iraq.
Katherine non ci dorme, si tormenta, passa giorni infernali. Alla fine decide di far trapelare quella mail.
L’Observer la pubblica.
La Gran Bretagna, insieme agli Stati Uniti stanno muovendosi per una guerra illegale a Saddam Hussein.
È lei stessa a confessare di aver stampato e portato il documento fuori dall’edificio. Dopo una notte in custodia, passa quasi un anno prima che si decida se istruire il processo ed infine nel novembre di quello stesso anno viene incriminata ma l’udienza dura meno di 30 minuti perché la procura della Corona, ritira le accuse.
L’improvviso dietro front è dovuto alla linea di difesa scelta da Katherine che, dichiarandosi innocente, giustificando la propria condotta con il principio di necessità, costringerebbe l’accusa a fornire i documenti che dimostrerebbero che la guerra in Iraq è stata una guerra illegale e porrebbe il Regno Unito e, di conseguenza, gli Stati Uniti, nella scomoda condizione di essere accusati di crimini di guerra.
Dopo un anno infernale, fatto di intimidazioni, di un tentativo di espulsione del marito, di diffamazioni e pressioni, il procedimento a carico di Katherine sfuma, come se non fosse mai esistito, e ironicamente, seppur giustamente, nel 2004 le viene anche consegnato il Premio Sam Adams, un riconoscimento consegnato ai membri dell’Intelligence che si sono distinti per integrità ed etica.
Nel frattempo la guerra in Iraq si è fatta, le armi di distruzione di massa non esistevano come non esistono più, si stima, da 151.000 a un milione di iracheni uccisi dalla guerra, insieme a 4600 morti inglesi e americani.
Il numero dei feriti è incalcolabile. 
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Masih Alinejad

10/5/2022

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Oggi vi racconto una storia che inizia e finisce con i capelli.
Tempo fa avevo letto un articolo su una donna coraggiosa con una bellissima chioma di capelli ricci che, forse, avevo pensato, ha scelto di portare così lunghi e fluenti come atto di liberazione e di protesta.
Mi ero anche chiesto come mai di una donna del genere si parli così poco.
In due parole: non so se quella chioma di capelli ricci ce l’avesse già da bambina, Masih Alinejad, ma so che era piccola quando Reza Pahalavi, scià di Persia, fu deposto per instaurare il regime dell’Ayatollah Khomeyni.
La prima volta l’hanno arrestata a 18 anni, per volantinaggio contro il governo, all’inizio degli anni 2000 diventa giornalista parlamentare, solo che poi scrive un articolo nel 2005 in cui parla di corruzione di alcuni ministri del governo ed il pass per entrare a palazzo glielo stracciano.
Le cose si mettono male fra il 2008 e il 2009 quando paragona i seguaci dell'ex presidente Ahmadinejad a delfini che, con le fauci aperte, attendono che l’addestratore gli dia da mangiare.
Cambia aria, va in America e poi nel Regno Unito, si laurea e inizia a raccontare la condizione delle donne nel suo paese e la situazione politica in generale in Iran.
Fra lei e il governo iraniano ormai è guerra aperta.
Come tutti i vigliacchi, non potendo sfogarsi su di lei, si sfogano per rappresaglia su amici e parenti: nel 2019 arrestano, fra gli altri, suo fratello, minacciano altri parenti di licenziamento se non la faranno tornare a farsi massacrare in patria e ordinano al padre di andare in TV per diffamarla. Lui si rifiuta e si fa 8 anni di carcere.
Nel frattempo ovviamente la stampa di regime inizia a riempirla di merda, accusandola di tossicodipendenza, dandole della puttana, un grande classico, imputandole pure la colpa di uno stupro mai avvenuto nella metropolitana di Londra. Come se poi subire uno strupro fosse una colpa, ma vabbè.
Addirittura arrivano a dire che Masih Alinejad sarebbe un’agente segreto alle dipendenze dirette della regina, visto che, raccontano in TV e sui giornali, in occidente se sei un giornalista lavori automaticamente anche per lo spionaggio.
Visto che tutto questo scarico di liquami evidentemente non basta salta anche fuori che nel 2021 è stato sventato un piano per rapirla a New York e riportarla a Teheran.
Non avevo più pensato a questa donna fino a quando non ho visto su internet una ragazza mora con due occhi enormi cantare “bella ciao” per Masha Amini, cantare in un modo così struggente che, persino io che non sono proprio facile a questo tipo di sentimenti, mi sono sentito orgoglioso che un canto del mio paese sia diventato il canto degli oppressi.
Solo non riuscivo ancora a mettere a fuoco, a richiamare alla memoria, quell’articolo e Masih Alinejad non mi tornavano in mente.
Poi qualcuno ha detto in TV che Masha Amini è stata arrestata dalla polizia religiosa perché una ciocca di capelli le era uscita dall’Hijab e poi hanno mostrato il video potentissimo di Hadis Najafi che con un gesto naturalissimo si fa una coda ed invece quella coda diventa una specie di gesto eroico, di battaglia, da condottiera, da martire purtroppo, come martire è stata anche Masha per via della sua ciocca ribelle.
E allora, come se un filo sottile come un capello, portasse da una chioma all’altra, mi è tornata in mente la capigliatura riccia di Masih Alinejad e ho scoperto che oggi, la gran parte di quello che sappiamo delle proteste in Iran è per merito suo.
In Iran la rete è controllata dallo staff generale delle Forze Armate della Repubblica Islamica, migliaia di siti sono bloccati, le VPN che funzionano sono solo quelle approvate dall’autorità, solo il torrenting non è completamente bloccato. Grazie a quello le immagini passano e Masih Alinejad le diffonde attraverso i suoi social e tutti i canali che ha disposizione.
E ancora oggi, quando ho finito di sbrogliare questa matassa di fili sottili come capelli scossi dal vento della ribellione, mi sono trovato a meravigliarmi del fatto di come si parli così poco di Masih Alinejad, così, per quel poco che vale, l’ho fatto io.
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Teresa Batista stanca di guerra

9/30/2022

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C’è la guerra al fronte e la guerra della vita.
Teresa Batista lo sa bene, per lei è stato sempre un combattere, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ha dovuto imparare ad essere dura Teresa, che l’amore è andato via presto ed ora chissà dov’è, se ancora c’è, se ancora la pensa.
Juanuario Gereba si chiama così il suo amore e lo ha conosciuto ad Aracaju, regione del Sergipe, erano due occhi fra i tanti occhi che l’ammiravano mentre ballava la samba nei cabaret. Due occhi da marinaio. Si sono conosciuti nel mezzo di una rissa che la sua vita è sempre questione di trambusto, schiaffi e violenza. Sempre quello le capita, anche se di guerra è così stanca che non lo riesce manco a dire.
È stata subito guerra, subito in salita, senza madre e senza padre e con lo zio che ha pensato bene di venderla a quel pezzo di merda del capitano Justiniano Duarte da Rosa che ne ha fatto la sua schiava. Stringi i denti Teresa, pensava, che la guerra è ancora lunga. Battaglia dopo battaglia, inciampa in Daniel, seducente, affascinante ma egoista. Se ne accorge troppo tardi che in quegli anni ancora si fidava degli slanci. Per lui affronta il capitano e finisce per ucciderlo.
Coraggiosa e appassionata mulatta.
È Emiliano Guedes che la tira fuori dalla galera, ne fa la sua mantenuta. È buono il vecchio fazenderio, la istruisce, le parla con parole che lei non conosceva, parole che si sciolgono in bocca e nel cuore ma non è ancora finita, bisogna rimettersi il coltello fra i denti perché Guedes muore e lei è di nuovo in mezzo ad una strada.
Non le fa paura, quanti mostri ha dovuto affrontare? Mentre si incammina verso Bahia pensa ai tempi del vaiolo nero, alla tristezza che in quel tempo l’aveva convinta a seguire quel medico, alle terre aride del Sertao e a come ha trovato la forza per aiutare, combattere, lottare una volta di più.
A Salvador non sa che fare, non ha niente, tranne la sua bellezza che decide di usare. Meglio la prostituta che affidarsi ancora ad un protettore, meglio da sola, meglio così, meglio non essere costretta a fingere ancora amore per qualcuno.
Ora però ci si mette pure la politica.
L’amministrazione cittadina, pure quella corrotta e schifosa, decide di trasferire i bordelli. Dal centro alla periferia, case fatiscenti e malsane che, guarda un po’, appartengono ad un politico locale che la domenica si fa bello in piazza, dice che ha pulito la città e intanto fa fruttare le sue proprietà.
Ci mancava anche qualche malalingua che le sussurra che il suo Janu è morto in mare, che non torna più, che non c’è più, che sta con le sirene ora.
Che stanchezza Teresa, che stanchezza.
Teresa Batista è così stanca di guerra ma mica può fargliela passare come se niente fosse.
Che le importa ormai?!
Allora Teresa organizza uno sciopero di tutte le mignotte di Bahia, una sarabanda di colori e rumori e festa e balli e rabbia che avreste dovuto vedere che spettacolo per le strade Bahia, dal Pelourinho fino a Nostra Señhora do bonfim e oltre.
Uno spettacolo che nemmeno gli orixas si sono voluti perdere e sono anche loro scesi in piazza e quando la polizia ha caricato c’erano anche loro che svolazzavano sopra il corteo e forse anche sotto e in mezzo e di lato.
E proprio quel giorno in porto è arrivata una nave americana e forse le malelingue avevano torto. Resisti Teresa che la guerra non è ancora finita, forse a bordo c’è anche il tuo Janu.
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La regina Sophia e il Boca

9/30/2022

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  Gli immigrati stanno nella parte più schifosa e lontana della città. Quella in cui è meglio non andare, quello che ci puoi trovare sono solo pescatori incazzati e tagliagole. Così si dice nei quartieri del centro e un po' è anche vero.
È un mondo a parte quello della Boca, zeppo di anticlericali, socialisti ed anarchici che nel 1882 ha fatto scoppiare un bel casino: uno sciopero generale che è culminato con il vessillo di San Giorgio issato nel tetto più alto del quartiere e la proclamazione di uno stato libero con la sua propria lingua, il genovese. 
Quello che non è vero però è che ci siano solo delinquenti, la Boca è piena anche di marinai e casalinghe, pittori, poeti vernacolari, commercianti, compositori di tango, sì, vabbè, anche bagasce e contrabbandieri ma fa parte del colore del quartiere, come le lamiere colorate del caminito.
Quello che sta per succedere è che sta per nascere uno dei club, anzi dei clÚb più affascinanti di tutto il pianeta.
​È l'inverno australe del 1905 e Giovanni Juan Brichetto fa entrare le navi nel porto putrido azionando il faro di ingresso, il padre probabilmente è al parco a giocare a scacchi, lui invece è stanco e muove la sigaretta da un angolo destro a quello sinistro della bocca.
​Erano giorni che si discuteva, con la lingua e con le mani, su quali colori dare alla squadra che volevano fondare. "Andiamo al porto e vediamo quali sono i colori della bandiera della prima nave che passa!", suggerì lui per tagliare la testa al toro. 
Verso la fine di quel giorno storico, mentre una manciata di ragazzi se ne stavano con i piedi a penzoloni sul molo a guardare l'orizzonte, entrò in porto la "Regina Sophia" che batteva bandiera svedese: gialla e blu. 
Il primo presidente della squadra si chiamava Esteban Baglietto e aveva 17 anni e il suo braccio destra era Santiago Sana che aggiunse al nome "Boca" il termine "Juniors" perché il primo pallone glielo regalò un marinaio inglese e perché una parola inglese sembrava desse a tutta la faccenda più importanza e credibilità.
La prima partita del Boca si disputò contro il Mariano Moreno e finì, secondo alcuni 4 a 0, secondo altri 3 a 1. Il barbiere Silvino, che aveva la bottega in calle Brandsen, fu per anni l'unico depositario della verità, perché lui a quella partita c'era. Ma morì nel 2003 a più di 100 anni, senza aver svelato l'arcano, atteggiamento molto sudamericano, alla verità si privilegia sempre la magia. 
​Da lì in avanti si è edificato il mito della Bombonera e della Doce, covo di rabbie e delusioni d'amore, teatro della banda che suona per la squadra, luogo dove mercanti e contrabbandieri si ritrovavano per scambiare vecchi arnesi o spezie o profumi a basso costo che arrivavano dal sud, tempio di nastri colorati e coriandoli che, negli anni, sono piovuti leggeri sulla cancha e sulle spalle del loco Gatti, di Riquelme, di Martin Palermo e anche del più grande, anche sulle spalle di Diego Armando Maradona.
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La partita a scacchi con la morte

9/16/2022

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Una spiaggia sassosa e un mare rumoroso, onde che tornano e ritornano, sbattono e si ritirano.
Una scacchiera che, chissà come, sta lì, appoggiata con cura su un sasso, le pedine sono disposte ordinatamente, ognuna nella sua casella.
Un uomo biondo, stanco, prega in ginocchio, il suo rapporto con Dio è complicato, lo cerca e ne fugge, lo maledice e lo accoglie, lo conserva miseramente anche se non vorrebbe.
Appena alza lo sguardo vede una figura scura, avvolta in un tabarro nero, solo il volto spunta, pallido come certi cieli velati di nuvole.
“Sono la morte”, dice l’ombra sinistra, “è molto che ti cammino accanto”
“me n’ero accorto”, dice l’uomo, “il mio spirito però non è pronto ad abbandonarsi a te.”
“Non concedo deroghe”, replica ancora l’ombra.
“tu sai giocare a scacchi?”, chiede l’uomo.
Ha saputo che la morte è un’abile giocatrice, c’è scritto in molti libri, lo narrano migliaia di leggende, non ha mai perso una partita, si dice, ma chissà, forse anche la morte può commettere un errore.
Alla morte tocca il nero, neanche a dirlo, l’uomo muove i pezzi bianchi.
E la partita è lunghissima.
Trascorre molto tempo, cambiano gli scenari, gli abiti, il clima, le stagioni.
La posta in palio è molto più alta di quello che, all’inizio, poteva sembrare.
Non si tratta di ingannare la morte, non si tratta di rubare più tempo alla vita, non si tratta di un rinvio, di una sfida, di astuzia.
L’uomo vuole conoscere i segreti della morte, cosa sta dietro ed oltre il suo mantello, vuole la verità, non quella di questa terra che verità non è, quella assoluta, definitiva, incontrovertibile.
Ma appena dopo che l’uomo fa scacco matto e vince la partita, la morte gli rivela che non ha segreti da svelare, poiché non conosce nulla, non gli serve sapere nulla.
Semplicemente ripasserà, quando tornerà il momento, a fare il suo mestiere.

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