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Il telefono vecchio

8/30/2022

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C’è una violenza domestica di cui si parla troppo poco.
Ogni giorno centinaia di migliaia di nonni vengono sfruttati dai nipoti per le stories e i reel di instagram. Facciamo qualcosa.
Si vedono questi anziani intenti nelle loro faccende quotidiane: fare bollire i pomodori per la salsa, spolverare la vetrinetta, dondolarsi sulla sedia o più semplicemente cacarsi addosso, inseguiti da una voce puberale dietro lo smartphone che intima loro: nonno racconta, nonna fai un sorriso, nonno saluta i followers, nonna dì quella parola che fa tanto ridere.
L’attempato tenta di fuggire, di schermirsi, di evitare l’obiettivo invadente del teenager consaguineo ma è ostacolato dagli anni, dai muscoli irrigiditi, dalle perdite urinarie, non ce la fa, è senile, e quei piccoli sciacalli non mollano la presa.
E allora il vetusto appoggiato alla credenza, al pollaio, alla latrina racconta, sorride, saluta i followers, dice quella cosa che fa tanto ridere senza avere l’aria di capire cosa stia facendo ma avendo tutta l’aria di dire: “Ma perché mi devi rompere i coglioni che già ho visto la guerra?!”
Se sei vittima o spettatore di questa violenza domestica, non voltare il capo dall’altra parte, non tacere, non rimandare, chiama oggi stesso il numero in sovraimpressione de “Il telefono vecchio” e denuncia l’abuso.
Possiamo aiutarti, non sei solo.
Telefono vecchio, per il vecchio ficcato a forza nell’engagement strategy del nipote.
Telefono vecchio, per il vecchio strumentalizzato per monetizzare e fidelizzare.
Telefono vecchio, per il vecchio che si è rotto i coglioni.

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La patente turistica

8/27/2022

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È giunto il tempo di dare un giro di vite.
Guardiamoci in faccia e diciamoci la verità. Il periodo del turismo per tutti è finito, è stata una parentesi felice, ci siamo divertiti, niente da dire, ma deve essere terminato. Come quei cavalli azzoppati.
In fondo, se ci pensiamo, per centinaia di anni è stato così: solo pochissimi avventurieri attraversavano i mari, quelli che scalavano le vette si potevano contare sulle dita di una mano, quelle che gli restavano dopo la cancrena da congelamento, solo uno sparutissimo gruppo di audaci esploratori scopriva tesori nascosti nel mezzo delle foreste equatoriali.
I sopravvissuti raccontavano. Raccontavano dello scorbuto, delle valanghe, dei boa constrictor e tu leggevi di queste avventure da casa, con calma, e sognavi di essere lì con loro, mentre in realtà eri sulla poltrona Strandmon, con la coperta sulle ginocchia che dolgono quando cambia il tempo, lamentandoti degli spifferi.
Poi un giorno, proprio quello lì sulla poltrona, Goffredo, poniamo, ha letto su facebook che viaggiare apre la mente e ha così deciso di alzarsi, di prendere un volo Ryanair, di schiavizzare uno sherpa perché lo portasse a spalle sull’Everest, di affittare uno skipper che gli facesse attraversare le onde del Pacifico mentre se ne stava sottocoperta con gli stuzzichini, di prenotare una pensione completa in un resort ricavato disboscando una foresta primaria.
Sempre quello lì, Goffredo, quando torna in patria, se ne esce con frasi tipo “L’havana? No, no, io non sono uscito dal mio villaggio a Varadero, mare bellissimo”, “Le escursioni in crociera? Ma sei fuori? In crociera ti devi vivere la nave.”, “In Cina ho ordinato un piatto di agnolotti del plin, una schifezza, si mangia malissimo!”, “Angkor vat, bella, ma don Giacomo la nostra chiesetta della Santissima Trinità la tiene più pulita.”
Ecco.
Che ne dite di conferire a figure dotate di un impermeabile color tortora il potere di, una volta riconosciuto l’improprio turista Goffredo, carbonizzargli il passaporto seduta stante?
In fondo, Goffredo, da visitare, rimane pur sempre la chiesetta della Santissima Trinità che, anche se la vedi dal terrazzo, non ci sei mai andato.

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In campagna elettorale ogni scherzo vale

8/24/2022

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Vabbè, si sa, siamo in campagna elettorale.
Vero che, anche voi, l’avete sentita dire un sacco di volte questa frase?
È una frase che segue una stronzata.
Come con tira il dito, te lo ricordi? Tira il dito! Prrrr!
Tira il dito è la stronzata detta ad un comizio, in un salotto tv, in un’intervista.
“Vabbè, si sa, siamo in campagna elettorale” è la pernacchia che segue automatica.
Tradotto vuol dire questo: “Lo sappiamo tutti che quel che ha detto è irrealistico, ridicolo, capzioso, lo sa anche lui, ma siamo in campagna elettorale, vale tutto!”
Ma non è mica carnevale.
Non è che per convincere l’elettore a votarti qualsiasi vaccata è lecita.
Non lo accetteremmo in nessun altro ambito della vita.
Esci con una donna e le dici: “Ce l’ho come John Holmes!”, vai a letto, ti tiri giù i pantaloni, lei si rimette gli occhiali perché non lo vede, “ma mi avevi detto”, eh, vabbè, ero in campagna elettorale.
Per restare in tema, sei dal pescivendolo, ti compri un trancio di pescespada. “Ma è fresco?”, “Oh, pescato stamattina”. Quella notte stessa, seduto sul water, lo chiami incazzatissimo, lui risponde: “Vabbè, ero in campagna elettorale, ce l’hai un limone in casa?”
Cerchi una babysitter, ne trovi una carina: “Hai esperienza con i bambini?”, “Decennale”, torni a casa e la trovi che passa tuo figlio sui fornelli per farlo addormentare, dici: “Ma che cazzo fai?” “Scusi, non ho mai tenuto un bambino, sa ero in campagna elettorale!”.
Non è che visto che devi convincere le persone, hai la licenza dello sparapalle illimitata.
“Mi assumi per gestire le riunioni degli alcolisti anonimi? Sono completamente astemio.”

Vabbè, dai, ero in campagna elettorale.

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L'atollo di Bikini

8/18/2022

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Questa è una storia terribile, racconta della crudeltà dell’uomo sull’uomo.
È una di quelle storie notturne che fanno davvero paura, soprattutto perché non arriva il momento in cui ci si risveglia da un incubo, perché non è un incubo, è una storia vera che, per quanto spaventosa, è giusto venga raccontata.
Le isole marshall erano un paradiso terrestre immerso nel blu tropicale dell’oceano pacifico, abitate da popolazioni completamente autosufficienti, questo fino al 1946 quando gli Stati Uniti ottennero queste isole come territorio fiduciario.
Quello che il governo degli Stati Uniti decide di fare in questo paradiso terrestre che ha come colpa quello di essere in una posizione perfetta per tenere la Cina sotto tiro, è un laboratorio per armi nucleari con gli abitanti come cavie. Il primo marzo del 1954 nell’atollo di Bikini viene fatto detonare un dispositivo termonucleare a fusione con combustibile solido con una potenza di circa mille volte superiore alle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Il cielo si colora di rosso, le palme si piegano a 90 gradi, una gigantesca colonna d’acqua si alza attorno ad 87 navi sui cui ponti ci sono animali di ogni specie portati lì per testarne le reazioni, esattamente come gli abitanti delle isole di Rongelap, Rongerik e Utirik che non sono stati evacuati. L’operazione si chiama “Castle Bravo” ed è la più devastante di 66 test nucleari condotti dal 1946 al 1958.
A vederlo ora l’atollo di bikini, è un luogo silenzioso, bellissimo, spaventoso. C’è una corona di sabbia bianca e vegetazione, una piccola striscia di acqua verde e poi un terribile occhio di acqua blu scuro che è il cratere lasciato dalla bomba. In quello che era un paradiso terrestre oggi non è più possibile vivere, è quasi tutto avvelenato, radioattivo.
Le popolazioni, anni dopo, sono state trasferite in altre isole. La percentuale di cancro è vicina al 100%, nascono ancora bambini deformi o con gravi menomazioni.
In quegli anni nasce il costume a due pezzi che suscitò grande scalpore per la sua audacia, tanto da essere definito un costume da bagno “atomico”. Ecco perché si decise di adottare per il costume il nome dell’atollo.
Nell’edificio dal quale si è fatta partire l’operazione “Bravo”, ora, lasciato nell’abbandono come tutto il resto, sopraffatto da sterpaglie e radici, resiste un cartello particolarmente ironico, alla luce dello stupro che si è fatto di questa gente e di queste terre. Recita: “Si prega di lasciare questo posto come lo si è trovato”.

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La pecora elettrica

8/17/2022

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La pioggia radioattiva sembra non fermarsi sopra San Francisco. Eppure anche oggi Deckard dovrà uscire per fare il suo sporco lavoro.
Saluta sua moglie Iran, depressa, stanca, apatica.
Non è facile continuare a vivere sulla Terra dopo la guerra nucleare. Chi ha potuto se ne è andato in una delle colonie extramondo, chi non ha potuto è rimasto in questa landa desolata.
Mettici anche il fatto che Deckard e Iran non navigano certo nell’oro, testimonianza ne è il fatto che non possono permettersi neppure un animale vero, vivente.
Si devono accontentare di quella pecora elettrica malfunzionante.
Se almeno la cavalla di Barbour, il suo vicino, partorisse…se lui mantenesse la promessa e regalasse loro il puledro.
Ora comunque è tempo di andare a caccia, a caccia di androidi, bestiacce del tipo Nexus 6 fuggite da Marte.
Deckard vola fino alle Rosen industries, a Seattle, deve somministrare il test di riconoscimento a dei replicanti. Qui, per la prima volta, incontra Rachel, è bella Rachel. Ma non supera il test. Ma è così bella. Tenta anche di corromperlo offrendogli un gufo, un gufo vero, che respira. Si pensava fossero tutti estinti i gufi, è una creatura così preziosa. Anche Rachel sembra così preziosa. Difficile non crederle. Per la prima volta Deckard sembra domandarsi: cosa significa davvero essere umani?
Dopo l’abbattimento del primo androide, un agente sovietico, con i soldi della taglia compra per sé e per Iran una pecora vera. Non sarà un gufo ma è una meraviglia. Non può godersela però, deve tornare fuori, la caccia non è finita. Il prossimo nome sulla lista è quello di una cantante lirica: Luba Luft. È una replicante, ma è così affascinante, talentuosa, si ritrova a porsi la stessa domanda: “cosa caratterizza un essere umano?”
Lei chiama la polizia, Deckard viene tradotto in una centrale che non ha mai visto, non conosce nessuno, neppure Garland, un agente che lo accusa di essere a sua volta un replicante.
Quello che salta fuori è che tutta quella centrale è un’impostura, che tutti i poliziotti sono replicanti, che anche Garland lo è ma proprio mentre sta per uccidere Deckard interviene Phil Resch che spara al suo collega.
Lui e Deckard fuggono, tornano a teatro, uccidono Luba e poi restano a guardarsi negli occhi perché non sono più sicuri se sono davvero umani o se hanno ricordi impiantati. Si sottopongono al test che emette la sua sentenza: Phil è un essere umano ma è spietato come un androide, anche Deckard non è un replicante ma nutre una insana compassione per alcuni androidi Nonostante tutto Deckard vuole finire il suo lavoro e vuole che Rachael lo aiuti.
Lei sembra volerlo dissuadere, in fondo è questo che ha sempre fatto, fare sesso con cacciatori di taglie per distrarli dal loro dovere. Racheal è un androide e lo sa benissimo. Nonostante questo Deckard fa sesso con lei, se ne innamora e la risparmia, lasciandola scappare.
La domanda sembra urlare dentro di lui ora, sempre più forte: “cosa significa essere umani?”
A lavoro finito torna a casa, trova sua moglie Iran disperata. Qualcuno ha ucciso la loro capra vivente, l’ha buttata giù dal palazzo senza alcuna pietà. Chi può aver compiuto un’azione tanto spregevole? Rachael, è stata Rachael. Un gesto orribile ma di gelosia, di vendetta, di rabbia. Così umano.
Mentre percorre il deserto dell'Oregon, Deckard sale su per una collina e viene colpito da dei sassi che cadono, proprio come accadde a Mercer, il fondatore del Mercerianesimo, la loro religione, proprio come accadde a Mercer nel suo martirio.
Qui trova un rospo.
Non può credere ai suoi occhi. Un rospo è inestimabile. Torna a casa e lo porge alla moglie con le lacrime agli occhi. Lei lo osserva. È sintetico.
Seppure molto infelice, Deckard, pensa che sia giusto sapere la verità. Tutto sembra gridare tanto da non potersi tappare le orecchie: “Cosa significa dopo tutto essere umani?”
Deckard si sdraia sul suo letto velato da un sottile strato di polvere radioattiva e si addormenta.
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Ana Maria Santi e gli ultimi Zàpara

8/17/2022

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Una volta un minga era una festa, oggi per Ana María Santi è un’occasione molto triste.
Lei ha visto il passato e, per una che ha visto il passato, questo presente non può che mettere tristezza. Siamo a Mazáraka, un piccolo villaggio sul Rio Conambo, un affluente del Rio delle Amazzoni.
Lei ha gli occhi grigi, le mani nodose, i capelli nerissimi nonostante i suoi 70 anni che la condannano a ricordare quando le scimmie ragno erano sacre e come le scimmie, anche loro, gli zàpara, vivevano sugli alberi, legando insieme i tronchi delle palme con liane di bejuco per sostenere i tetti di foglie.
Le sue nipoti, con fili d’erba intrecciati fra i capelli, le offrivano una tazza di chicha, un’acida e lattiginosa birra di polpa di manioca fermentata con la saliva delle donne che la masticano per giorni. Lei la rifiutava in una lingua mista fra Quichua e Zàpara, che quasi non si parlava più. Ricordava quando si mangiava soprattutto polpa di palma e tapiri, pecari, colini e craci.
Poi, dall’altra parte del mondo, era successa quella cosa di Henry Ford che scoprì come produrre automobili in serie. All’improvviso serviva un sacco di gomma per copertoni e camere d’aria.
In Ecuador gli indi Quichua delle colline, già evangelizzati dai missionari spagnoli, furono ben contenti di aiutare i nuovi venuti a stanare quei barbari delle pianure, gli Zàpara appunto, incatenarli agli alberi affinché lavorassero fino allo stremo, schiavizzare le loro donne affinché partorissero nuovi schiavi da lavoro.
Quando, negli anni ’20, le piantagioni del sudest asiatico avevano ormai mandato in malora il mercato della gomma sudamericano, si pensava che il popolo degli Zàpara non esistesse più, fosse estinto.
Nel 1999 però, a seguito della risoluzione di una disputa di confine fra Ecuador e Perù, uno sciamano peruviano fu trovato a camminare nella foresta ecuadoriana. Tornava a cercare i parenti. Era uno zàpara. Esistevano ancora.
Fu loro restituita una piccola parte della loro terra ancestrale, L’UNESCO stanziò del denaro per rianimare la loro cultura e salvarne la lingua. La parlavano in quattro, ormai.
Anche loro avevano imparato dagli occupanti ad abbattere alberi millenari per creare appezzamenti di manioca che ora era la loro principale fonte di sostentamento, la consumavano per tutto il giorno, sotto forma di chicha.
Erano sempre ubriachi gli Zàpara sopravvissuti, bambini compresi.
Anche quel giorno di festa, anche durante quella minga, una festa campestre per la costruzione di un granaio.
D’altra parte, se ti risvegli, dopo una quasi estinzione, in un mondo che non è più il tuo, come fai a rimanere in piedi se non ti stordisci un po’? Gli zàpara stanno seduti uno addosso all’altro, piedi nudi e volto dipinto, in cerchio.
Le nipoti di Ana Maria Santi passano servendo piatti di pesce gatto stufato e agli anziani e agli ospiti offrono anche una carne bollita scura come il cioccolato fondente.
Ora che, senza foresta vergine, la selvaggina è sempre più rara, gli zàpara si sono trovati costretti a cacciare le scimmie ragno.
Le ragazze ne offrono un piatto anche ad Ana Maria Santi che le rimprovera con la voce stanca: “Quando ci riduciamo a mangiare i nostri antenati, che cosa ci resta?”
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Gli adoratori del cocco

8/17/2022

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Tedesco, vegetariano, scosso da una specie di sturm und drang, con velleità artistiche, persino seducente nel suo entusiasmo, più folle che gioioso, alla ricerca di uno stile di vita sano, di una maggiore vicinanza alla natura, August Engelhardt è disgustato dalla vecchia aristocrazia prussiana, per non parlare della nuova borghesia bottegaia.
Ha in testa una vita diversa, molto diversa.
E quando nel luglio del 1902 riceve una cospicua eredità, coglie la palla al balzo e parte per l’arcipelago di Bismarck, oggi parte della Papua Nuova Guinea, allora dominio del Reich, qui compra per 41.000 marchi, 75 ettari  di terreno a Kabakon, un’isola corallina, i cui 50 ettari restanti sono una riserva naturale in cui vivono 40 melanesiani.
È il solo bianco, insomma. Costruisce una casetta, si denuda e inizia a cibarsi di noci di cocco.
Sì, perché Engelhardt aveva una curiosa convinzione: è persuaso che il cocco sia un frutto divino.
Ora, è vero che il cocco è un frutto straordinario, offre proteine e acqua potabile ma per lui c’è molto di più. Siccome Dio è il sole e il cocco è il frutto che cresce più vicino al sole, cioè a Dio, non può che essere il cibo per eccellenza, forse è Dio stesso. Ragionamento semplice ma, secondo lui, inattaccabile.
Il fatto che, dopo poco tempo, gli si presenti un’ulcera sulla gamba destra, non lo smuove: è certamente colpa di un passato speso a nutrirsi in modo scorretto.
Essere però l’unico coccovorista al mondo non lo rende felice, sente il desiderio di condividere con altri questo stile di vita che, nei momenti di più grande esaltazione, pensa possa renderlo addirittura immortale.
Così, propaganda la sua idea in Germania offrendosi persino di pagare le spese di viaggio per eventuali nuovi adepti.
I risultati non si fanno attendere e una modesta truppa di squilibrati, sognatori, viaggiatori, delusi dalla società materialista guidata dal Kaiser Guglielmo II, arriva sull’atollo.
Alcuni muoiono presto per denutrizione, infezioni o malaria, tanto che le autorità tedesche della Nuova Guinea chiedono ad ogni nuovo arrivato di pagare una salata cauzione prima di ricevere il visto di ingresso. Questi soldi, spiegano, serviranno a pagare le cure ospedaliere di cui avranno sicuramente bisogno.
Fra omicidi, amicizie paranoiche, truffe, cannibalismo, automutilazioni, malattie orrende, la situazione sfugge di mano molto presto tanto che le autorità vietano a chiunque di unirsi alla comunità sancendo la fine effettiva del culto.
Engelhardt rimane così sempre più solo, fatta eccezione per gli indigeni che lo hanno sempre guardato come uno strambo occidentale che non dava granché fastidio e con l’unica sporadica compagnia di alcuni turisti tedeschi che, immancabilmente, gli chiedono una foto. Abbiamo così una documentazione fotografica della sua degenerazione fisica che dura fino al 6 maggio del 1919 quando trovano il suo corpo sulla spiaggia.
L’ultimo dei suoi adepti morirà sei giorni dopo all’ospedale di Okopo.
Si conclude in questo modo la grande epopea del culto degli adoratori del cocco.
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Le aziende etiche

8/16/2022

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C’è stato un tempo in cui le aziende vivevano per il profitto. Che schifo. Ve lo ricordate?
L’azienda fabbricava i suoi prodotti, forniva i suoi servizi, distribuiva le sue merci all’unico vile scopo di trarne degli utili.
Bleah. Mi viene da vomitare se ci penso.
Oggi no, non è più così, oggi le aziende sono etiche, c’hanno le mission.
Oggi la multinazionale non ha mica come priorità quella di guadagnare, macché, perversioni del passato, oggi deve perseguire i suoi values. Oggi la big company petrolifera è super inclusiva, il colosso minerario soccorre i bambini denutriti del Cocomeristan, l’industria alimentare si adopera per la protezione del crapachulo muschiato delle Ande. Ma scherzi?
C’è addirittura una fabbrica di armi, della quale non faccio il nome, nel caso altre fabbriche di armi mi volessero come influencer, che promuove progetti a favore della sostenibilità ambientale, progetti che contrastino il riscaldamento globale. Lo bombardano loro il riscaldamento globale, prova, prova a venire avanti, global warming, uno scolapasta ti faccio diventare, gringo.
Producono pistole, mitra, pistole mitragliatrici, fucili, fucili da battaglia, fucili da assalto, carabine, mitragliatrici, rivoltelle ma non li toccare sulle emissioni di Co2 che sbroccano.
Sai come si chiama il loro progetto a sostegno dell’ambiente? Life.
Un po’ come se la Durex promuovesse un programma dal titolo: “Children”.
​ Oggi l’azienda deve avere il volto umano, deve essere sostenibile, solidale, green, compostabile, deve abbracciare i valori dei millennials e delle generazioni Y e Z …Non vendono più merci, vendono i values.

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I pedalò sono come gli spinelli

8/11/2022

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Ve lo ricordate Giovanardi? Era uno che diceva che è sicuro che se uno un giorno si fa uno spinello, prima o poi morirà con una spada di eroina nel braccio. Garantito. Visto che è uno che evidentemente si intende di degenerazioni, mi chiedo: dov’era agli albori del pedalò? Dovete sapere che c’è stato un tempo in cui ai nostri giovani bastava il mare. Se ne andavano su un tratto di costa, stendevano una stuoia, i più abbienti affittavano una sdraia, e se ne stavano lì, a godere del suono del vento, del lento sciabordio delle onde, ciucciando un calippo. Poi sono arrivati i pedalò e, lì per lì, nessuno pensò fossero pericolosi. In fondo non infastidivano nessuno. Il pedalò funziona con l’olio di ginocchio, con la propulsione dei polpacci, con l’arroganza della nuda pianta del piede. Ma, senza che nessuno se ne accorgesse, il pedalò ha sdoganato un concetto: il mare può averci gli optional. E una volta che ne provi uno, ne vuoi sempre di più. Nessun giovane si sarebbe più accontentato del mare, così com’è. I giovinastri hanno iniziato a giocare a racchettoni sulla battigia. Mentre prendi il sole. Tap-tap-tap, oh, scusi. Scusi un cazzo, se non sapete fare uno scambio di più di tre colpi, è evidente che lo sport, qualsiasi sport, non fa per voi, non dico Wimbledon ma che cazzo! I giovinastri hanno iniziato a mettere le casse fuori dai chiringuitos con i tormentoni. Ma perché? È così bello il rumore del mare, non vi piace più? Lo scrivono anche i poeti in quei cazzo di versi che citate sui social, perché le casse con i bomdabash? I giovinastri hanno iniziato a pretendere le moto d’acqua…ma perché? Dove cazzo dovete andare alle 4 del pomeriggio di ferragosto? Dove? In Albania? In Corsica? In Tunisia? Magari! Andate avanti e indietro lungo la linea dell’orizzonte per poi tornare sempre a riva. I gonfiabili a forma di unicorno, di ciambella americana, di anguria; il dj set al tramonto, i droni che ronzano come calabroni. Perché vuoi vedere il mare da 30 metri di altezza? Se i droni avessero una dignità si suiciderebbero come prodi kamikaze sulle teste di quelli che stanno in piedi come dei fenicotteri zoppi sulle stand up paddle, quelle assi da stiro per surfers che non ce l’hanno fatta. Non è un caso se il surf lo fanno dove ci sono le onde e il windsurf lo fanno dove c’è vento, ma lo capisci che se non ci sono onde e non c’è vento, sopra quell’affare sembri un orso polare alla deriva su un pezzo di ghiaccio che si è staccato dalla banchisa? Abbiamo cominciato con i pedalò e siamo finiti all’eroina. Non ce l’ho con voi eh, lo so che gli optional danno dipendenza, succede a tutti, non se ne può più fare a meno, solo mi chiedo: Dov’era Giovanardi quando serviva? Dov’era?

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L'arena erbosa

8/11/2022

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Ho sempre avuto una certa fascinazione per quei fiori che crescono in mezzo all’asfalto, nelle crepe dei muri, in mezzo ai rifiuti. Nonostante i tubi di scappamento, nonostante la mancanza di acqua e di luce, nonostante la terra inquinata ce la fanno, magari per poco, ma ce la fanno a sbocciare. Questa è la storia di un uomo che assomiglia a quei fiori, si chiama John Healy. Nasce a Kentish Town, north London, famiglia irlandese, un padre con una bella fila di denti bianchi e un bel sorriso che però con lui non rideva mai. Erano soprattutto botte. E allora la prima cosa che a John viene da fare è il pugile, lo fa nell’esercito e come prima cosa, gli riesce bene. È uno stereotipo d’altra parte, no? Il picchiatore irlandese. Quelle botte che ha preso però hanno lasciato quei segni che non si curano, anche qui sarà uno stereotipo, sarà retorica, ma John inizia a bere e a breve si ritrova per strada con un gruppo di balordi. Per anni non fa altro che camminare per la città cercando qualcuno che gli offra da bere. Di notte si infila negli anfratti dei cantieri, sposta lamiere e ci si infila in mezzo, si protegge dal vento e dalla neve, costantemente intontito, costantemente immerso in una sottocultura dove violenza e soprusi sono la norma. Ne vede cadere tanti. Le risse nascono dal niente, si rompe un pezzo di legno, si afferra un tubo di metallo abbandonato, si rompe una bottiglia e qualcuno muore. Si cerca di non farsi trovare in giro quando arriva la polizia. John fa dentro e fuori dalla prigione. A Petonville, nel 1971, come compagno di cella, gli capita Harry Collins, detto Brighton Fox. Lo chiama “Oliver”, come Oliver Twist. John lo vede concentrato su un gioco di cui non sa nulla, gli scacchi. Harry gliela spiega così: “sulla scacchiera puoi fare tutto quello che fai per strada ma senza finire in galera”. John rimane affascinato, in poco tempo impara. Io non so giocare a scacchi ma so che chi è bravo ne è ossessionato, si stacca dal mondo reale, il suo cervello è in grado di elaborare una serie di casistiche e di patterns che richiedono un’intelligenza non comune. Quando esce inizia a giocare professionalmente, gli scacchi lo assorbono, smette di bere, nell’ambiente si accorgono immediatamente di lui, ha un grande talento, vince 10 tornei internazionali ma, ad un certo punto, realizza che non riuscirà a diventare un maestro. Di solito, i più grandi, iniziano a giocare a 5 anni, lui ha iniziato a 30, non riesce a colmare il gap. Ci mette un anno ad accettarlo, sbanda di nuovo ma questa volta senza deragliare perché, in carcere, era successa un’altra cosa. Aveva disobbedito ad un ordine e un secondino gli aveva dato due calci in bocca e lo aveva sbattuto in isolamento. La cella era piccola e buia, non c’era nessuno, niente da guardare. Quindi lui si sdraia a terra e inizia a respirare lentamente, per calmarsi, poi diventa consapevole del proprio respiro e la cosa lo rasserena come non gli era mai capitato. Fuori dal carcere incontra una donna, è un insegnante di yoga, anche in quello diventerà bravo. Nessun pensiero filosofico o spirituale, dice lui, lo fa solo quando gli serve, ma lo pratica con grande efficacia. Torna da sua madre. Per lei deve essere stato abbastanza scioccante, non aveva sue notizie da 10 anni, probabilmente pensava fosse morto, sta con lei perché non ha un tetto, finirà per assisterla quando lei si ammalerà di Alzheimer. Mentre vive con sua madre, fa il tuttofare per raggranellare qualche soldo e si trova a tagliare l’erba di un giardino di una clinica oncologica dove incontra una paziente, si chiama Jo Spence, è una fotografa che lavorava al british film institute e John le parla di un manoscritto che tiene nel cassetto, ci ha lavorato nel corso degli anni, quando sentiva di dover sputare fuori racconti di quella vita di merda che faceva ai margini della società. Jo Spence pensa sia bellissimo, gira il testo a Colin McCabe che siede nel direttivo della casa editrice Faber&Faber. Nel 1988 il libro esce, si intitola “The grass arena” e riceve critiche straordinarie, vince il prestigiosissimo J.R.Ackerley Award, da quelle righe viene tratto un film che uscirà nel 1991. Purtroppo, poco dopo il lancio, John litiga con i vertici della casa editrice, per soldi pare, la pubblicazione viene interrotta e lui finisce nel dimenticatoio per altri vent’anni, finché il libro non viene ripubblicato dalla penguin classics, niente meno. Oggi John Healy vive a Londra, ha 79 anni, parla poco, si dice che non sia facile comunicare con lui. L’unica cosa che gli interessa, pare, è trovare un po’ di pace mentale, con lo yoga ci riesce, perché trascende. Poi però torna qui e qui, dice, è più difficile.
Se ti affascinano "gli scrittori maledetti", prova a LEGGERE/ASCOLTARE cliccando qui!

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