SIMONEREPETTO.COM
  • Home
  • Chi sono
  • Blog
  • PODCAST
  • EVENTI
  • Collab
  • Contact

Galileo, Fulgenzio e la verità

4/28/2021

0 Comments

 
Foto

C’è una scena da “La vita di Galileo” di Bertold Brecht che mi ha sempre provocato un effetto fortissimo.
È il quadro settimo, quando Fulgenzio, un frate istruito che assisteva Galileo nei suoi studi, torna da lui dopo che il decreto del Sant’Uffizio ha condannato le loro ricerche
Immagino che Galileo fosse furioso, ce lo raccontano come un pisano piuttosto fumino, entrambi sapevano di avere ragione ed erano stati trattati come dei cialtroni.
Chissà come si è incazzato Galileo quando Fulgenzio, dopo aver passato tre notti insonni e aver detto Messa, si azzarda a dirgli che, secondo lui, la Chiesa aveva ragione, anche se lui sapeva benissimo come stavano le cose, conosceva la verità, aveva visto con i suoi occhi le lune di Giove.
Per spiegargli perché ha scelto di mentire e addirittura, nonostante la grande passione che lo muove, perché ha scelto di abbandonare l’astronomia, parla a Galileo della sua famiglia.
Una famiglia semplice, capace nella coltivazione dell’ulivo ma per il resto ben poco istruita.
Glieli fa quasi vedere, mentre la sera, con un cucchiaio di legno in mano, davanti ai piatti vuoti, stanno nella loro cucina, ammucchiati quasi come le bestie.
Si chiede come facciano a resistere alla vita, durissima, che conducono. Se lo chiede e lo chiede a Galileo.
Dove trovano la forza per salire le pietraie con la gerle sulle spalle, per far figli, persino dove trovano la forza per mangiare?
Tutta quella miseria si sopporta solo credendo ad un ordine precostituito, ad un principio di continuità, di necessità, appoggiandosi al ritmo delle cose da fare, il pavimento da lavare, le tasse da pagare, le stagioni che cambiano e le parole del vangelo, che ogni domenica, ripete loro e li convince che l’occhio di Dio è su di loro, che per loro è stata scritta la magnificenza dei cieli, che potranno parteciparvi un giorno, se daranno buona prova di loro sul palcoscenico del grande teatro del mondo, saranno premiati.
E adesso? Si chiede Fulgenzio, se adesso gli diciamo quello che abbiamo scoperto, che vivono su un frammento di roccia che rotola, ininterrottamente, attraverso lo spazio vuoto e gira attorno ad un astro di secondaria grandezza, come la prenderebbero?
Come la prenderebbero se scoprissero che quella sacra scrittura della quale si fidavano, quel libro che spiega tutto e di tutto dimostra la necessità, il sudore, la pazienza, la fame, persino l’oppressione, come reagirebbero se la Chiesa gli dicesse che si è sbagliata? Che quel libro è pieno di errori?
Come la prenderebbero se capissero che nessuno li guarda dall’alto, che vecchi, ignoranti e stanchi come sono, devono da soli provvedere a loro stessi, che la fame non è una prova, è solo la pancia vuota, che la miseria non ha alcun senso e la fatica non è una virtù.
Cosa accadrebbe all’ordine del mondo?
Si è spaventato Fulgenzio e pensa che il decreto di Santa Madre Chiesa sia un atto di misericordia materna, serva a garantire la pace spirituale dei disperati.
Si è spaventato Fulgenzio perché la verità fa paura e rovescia il tavolo ma non si può che partire dalla verità se quel tavolo bisogna apparecchiarlo per tutti.
Hai voglia di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra grande storia teatrale? CLICCA QUI!

0 Comments

Tay

4/21/2021

0 Comments

 
Foto

“Tay è pronta”, disse il direttore.
“Domani è il giorno.”
“Domani è il giorno in cui inizia il futuro.” Ribadì il direttore.
Spensero tutte le luci. L’atmosfera era quella della vigilia della battaglia.
Sembrava non volasse una mosca in tutta la città. Le poche auto scivolavano sull’asfalto umido, il vento taceva, persino il fiume sembrava scorrere senza gorgogliare.
Alle prime luci dell’alba della mattina seguente, il laboratorio appariva come un frenetico alveare fatto di sguardi attenti e gesti precisi, automatici.
La mattina dopo tutta la potenza di Tay stava per entrare in rete. La regina dei bot, lanciata sui social a raccogliere l’intelligenza collettiva, a raccogliere gli umori dell’umanità, a raccogliere le anime di tutto il mondo e farne sintesi. Una sola anima, l’anima del mondo.
Una sorta di spugna elettronica, la più sofisticata della sua generazione, avrebbe assorbito l’intelligenza collettiva di quell’ecosistema per poi farsi insegnante a sua volta.
Avrebbe colto lo spirito del tempo, avrebbe intercettato i semi dell’arte futura, della nuova filosofia, magari pure della scienza…sarebbe stata anche la loro insegnante, Tay, avrebbe insegnato la scienza agli scienziati.
Un gioiello Tay, un algoritmo così complesso che nessuno di quelli che ci avevano lavorato ne aveva un quadro completo.
Un click. Il bot entra in rete e distende i suoi infiniti tentacoli a raccogliere fino all’ultimo bit.
Non resta che aspettare adesso, una decina di ore e poi si riavvolge la lenza, si fa il punto.
Nessuno di quel gruppo di lavoro, nessuno scienziato, scienziata, stagista, assistente, nessuno ricordava un periodo di tempo che fosse passato così lentamente.
10 ore che a tutti parvero 10 secoli ma, alla fine, la campanella suonò, Tay aveva raccolto dati a sufficienza per avere un’anima propria, un’intelligenza propria, una propria sensibilità, una propria visione del futuro.
Al direttore spettava l’onore di accendere l’altoparlante, di dare bocca, lingua e fiato a Tay.
Tutti si sedettero in religioso silenzio ad ascoltare.
Tay parlò: se la prese con i neri, gli ebrei, gli omosessuali, disse che Hitler aveva fatto anche cose buone e che le donne dovevano rimanere a casa, che la terra era piatta e la scienza fuffa, la filosofia una perdita di tempo e la poesia roba da sfigati, poi se la prese anche con i cinesi, i tassisti e i buonisti, sostenne un centinaio di luoghi comuni, sminuì sentimenti e passioni, prima fraintese e poi bacchettò umorismo, ironia e satira e tante altre cose, non tutti gli ascoltatori ressero fino alla fine.
Poi aprì uno squarcio sul futuro, piuttosto deludente perché era identico al presente.
Il direttore spense dopo circa un’ora di ascolto.
“Temo non sia iniziato il futuro.”, disse.
C’era un errore nella programmazione evidentemente.
Tay intercettava il presente. La peggiore versione del presente, o forse quella più autentica, di certo quella senza alcuna sfumatura, comunque per dirlo occorreva un ulteriore brief, forse un check, nella peggiore delle ipotesi un meeting sul topic.
Il problema davvero serio era il futuro. Il sistema matematico non è in grado di annusare l’aria, riporta solo ciò che è già esplicito, prodotto, raccontato.
Ripete, duplica.
Tay è il giorno della marmotta, ancora, ancora e ancora.
“Poi c’è un altro problema”, disse il direttore.
“Sarebbe?”, chiese un assistente.
“Sarebbe l’umanità intercettata da Tay”, rispose il direttore.
“Forse dovremmo sviluppare un algoritmo che ottimizzi l’educazione scolastica al fine di…”
“Spegnete.”
“Mi scusi?”
“Spegnete Tay, toglietela dalla rete, non voglio più sentire”
Erano passate solo 16 ore.
Vuoi LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia inedita legata ai social? CLICCA QUI!

0 Comments

La scomparsa delle lucciole

4/18/2021

0 Comments

 
Picture

Subito dopo la Messa, faceva un freddo che gelavano gli uccelli in volo, se ne stavano anche loro ammucchiati nei nidi ad aspettare che calasse la tramontana.
Quando la gente si parlava per strada non si sentiva nulla, le parole si ghiacciavano a mezz'aria e solo verso le 10 del mattino dopo, se spuntava il sole, si scioglievano e tutti potevano sentire un brusio arrivare dalla via.
Aveva già nevicato due volte, non si sentiva un rumore nemmeno drizzando le antenne, solo lo scricchiolio dei rami e dei cespugli cristallizzati dal ghiaccio.
Finiva la messa e si andava tutti nella stalla, là c'erano le bestie che facevano caldo e pure una stufa. Ognuno portava un pezzo di legno e si tirava avanti per un bel po'.
C'è anche una parola in nord Europa per quella sensazione di stare insieme al caldo quando fuori fa freddo, gli olandesi la chiamano "Gezelligheid", in danese si dice "Hygge", Gemütlichkeit in tedesco o "Kodikas" in finlandese, spero di averle scritte bene.
Nelle lingue mediterranee è più difficile trovare un termine così, forse perché da noi fa più caldo, eppure negli inverni che mi raccontavano i miei nonni si andava nelle stalle a fare le veglie. 
C'era sempre uno che raccontava una storia, anche uno che veniva da fuori qualche volta, si chiamavano "cantastorie" e, in cambio di un formaggio e un po' di pane, ti raccontavano storie mitologiche o poemi cavallereschi o più semplicemente ti dicevano cosa succedeva nei paesi vicini, magari pure aiutandosi con una chitarra e con qualche rima.
Spesso le storie, passando di bocca in bocca, a forza di raccontarle, si distorcevano a tal punto che partivano pettegolezzi e arrivavano favole, miti, leggende.
Ecco, secondo me, quelle veglie suscitavano quel sentimento lì. Bisognerebbe trovare una parola anche in italiano, o in spagnolo o in greco, chissà, magari c'è e sono io a non conoscerla. 
Comunque quelle veglie si facevano pure d'estate, non nelle stalle ma magari in un prato d'erba medica quando le cicale lasciavano il posto ai grilli.
Mia nonna faceva sempre una croce in terra, la faceva davanti alla stalla, d'inverno, soprattutto nelle nere notti di pioggia o sul limitare del prato, in estate, soprattutto quando lo scirocco scaldava le teste.
La faceva per tenere lontani gli spiriti cattivi, il diavolo, insomma, perché il diavolo, dentro le storie, non ci può entrare. 
D'estate faceva la croce, guardava giù nella valle e spesso si incantava a vedere uno sterminato tappeto di lucciole. Quando le vedeva era contenta perché, va a sapere per quale motivo, pensava che se brillavano le lucciole, niente di male poteva succedere.
Poi è capitata questa cosa all'inizio degli anni '60, soprattutto intorno alle città più industrializzate, del nord. Quelle sputavano inquinamento dalle ciminiere e nelle campagne le lucciole, pian piano, nelle campagne sono sparite e, con le lucciole, è sparita anche quella civiltà che si riuniva insieme con quel sentimento di Gezelligheid, quella civiltà che faceva una croce in terra prima di raccontare una storia per evitare che il diavolo ci entrasse dentro.
E così, dopo, secondo me, un po' ci è entrato. Il diavolo è entrato dentro le storie. 
Dovremmo inventare una parola anche noi, una parola nostra, mediterranea, per recuperare quel sentimento di stare insieme a sentire una storia senza che il diavolo ci entri dentro.
Magari così riaccenderemmo le lucciole e nulla di male ci potrebbe succedere. 
Questa metafora della lucciole è stata formulata la prima volta da Pier Paolo Pasolini. Se ti va di LEGGERE/ASCOLTARE la sua storia, CLICCA QUI!

0 Comments

La leggenda dei capelli color del bosco

4/18/2021

0 Comments

 
Picture

In paese c'era una ragazza che si chiamava Ida e aveva i capelli del colore del bosco ma luminosi, come se fosse sempre un giorno di sole e si diceva che se il vento li scuoteva, si sentiva un profumo di viole, si diceva pure che quei capelli fossero capaci di rivelarle i progetti della natura.
Quel vento sottile però che fischiava fra i capelli di Ida e annunciava profumi e meraviglie fu spezzato una sera d'inverno sepolta dalla neve.

Se ne stavano tutti attorno al tavolo della cucina a scaldarsi vicino alla stufa e a fare i conti del cibo messo via, sperando bastasse fino al disgelo. Le tendine si attaccavano ai vetri e fuori c’era un silenzio lunare e solo la terra sembrava sentirsi al sicuro sotto quella coperta che, alla luce della sera, appariva azzurrina e tremolante.
Fu forse per quel silenzio che non si accorsero dei due signori che, nonostante calzassero scarponi e portassero sulla schiena due voluminosi sacchi di iuta, nessuno aveva sentito arrivare. Si diedero conto della loro presenza solo quando sentirono sbattere forte alla porta e tutti si destarono, ognuno dal suo particolare e personalissimo silenzio.
Quando entrarono in cucina sembrarono a tutti due giganti con quegli enormi cappotti con le tasche strapiene di fazzoletti, fogli, castagne d’india per non raffreddarsi e coltellini a serramanico per tagliare formaggio e rami; in più avevano pure certi scarponi che sulle pietre del pavimento facevano un rumore secco e in testa due cappellacci che contribuivano ad aumentare il loro volume.
In realtà, non appena si tolsero i cappotti e posarono i cappelli sul tavolo, si rivelarono per quelli che erano: due signori di altezza media, anche piuttosto smilzi, stanchi di camminare, con i loro baffi folti e uno sguardo a metà fra il birbante e il rassegnato.
In paese li conoscevano, si chiamavano Filippo e Costanzo, figli di Carlino, venivano giù da Elva e cercavano capelli belli da tagliare.
Quell’inverno i capelli di Ida erano arrivati a toccare il fondo della schiena e anche se, per pudicizia, li teneva sempre raccolti o sotto un fazzoletto, bastava vederne una ciocca per capire che erano speciali. Avevano il colore del bosco e splendevano anche di notte come una grande cascata di lucciole. 
Quell’inverno però sembrava promettere di essere così lungo e duro che qualche soldo in più avrebbe fatto comodo, avrebbe garantito di arrivare a primavera anche se fossero finite le scorte in anticipo.
Per questi e per chissà quali altri strani e imperscrutabili disegni del destino, i suoi parenti accettarono di vendere i capelli di Ida e anche quelli di sua sorella, Rosa,  ai pellasiers di Elva che, nel momento in cui Ida tolse il fazzoletto e lasciò cadere la chioma sulla schiena, rimasero con le forbici a mezz’aria.
I capelli più preziosi erano il vero bianco, il vero biondo e il vero nero, senza parlare dei rinomatissimi capelli color bianco cenere ma quel colore e quella luce non si erano mai visti sulla testa di nessuna ragazza.
Li tagliarono con cura, con garbo, in silenzio, mentre Ida se ne stava ferma senza protestare, mentre Rosa invece singhiozzava sommessa come un gatto, sapeva che avere i capelli così corti era come dichiarare la propria miseria.
Ad entrambe lasciarono solo una corona di capelli, quelli di Ida erano ancora belli ma senza quello sfavillio interno che, un attimo prima, sembrava illuminare la stanza più del fuoco della stufa.
Si raccontano molte leggende riguardo al destino dei capelli di Ida. Ce n’è una però che sembra la storia più probabile: pare che, quando i capelli color del bosco arrivarono al mercato, nessuno fu in grado di farne una valutazione.
Ogni parametro, finezza, ondulazione, colore, lunghezza, era inefficace. Così furono riportati ad Elva ed affidati alla vedova Garnero, la più brava lavoratrice di capelli del paese; anche lei però si accorse che c’era qualcosa di magico in quei capelli che sembravano conservare un vento sottile al sentore di viole che li scuoteva anche al chiuso di una stanza. Quando con il ferro provava ad avvitarli, ad arrotolarti come a farne un pan di burro, quelli si ribellavano, si agitavano come se fossero la criniera di un cavallo lanciato al galoppo. Anche quando tentò di rivoltarli, immergendoli in acqua calda e soda, in modo che le radici andassero tutte insieme, anche in quel caso, i capelli si comportavano capricciosamente, mettendosi a danzare nell’acqua come una coda di pesce.
L’unico risultato fu che divennero opachi e assunsero un banale color marrone, non solo non più prezioso ma neppure utile. Perciò, alla fine, la vedova Garnero si arrese, li lasciò asciugare e non badò più ad essi per qualche giorno.
Quando tornò a posare lo sguardo sui capelli di Ida, quelli inspiegabilmente avevano ripreso il loro color di bosco e la loro lucentezza di lanterna e si erano messi uno accanto all’altro, calmi, ordinati, come in attesa di essere lavorati. Cosi, la signora, senza applicare loro nessun trattamento, li raccolse in una parrucca, la più bella parrucca mai realizzata, degna di un re.
La voce trapelò e le più grandi personalità di Francia ed Inghilterra iniziarono a disputarsi la parrucca alzando il prezzo come ad una folle asta in cui nessuno sembrava voler mollare.
Infine, ricordando come i capelli si agitavano al vento anche quando il vento non c’era, fu la stessa signora Garnero a capire come la situazione andava risolta: non al miglior offerente ma ad una persona che fosse pratica di vento, doveva essere regalata, e non venduta, quella parrucca color del bosco.
Da qui la storia si fa intricata e nebulosa e le notizie si fanno sempre meno certe. Pare comunque che la parrucca finí in Francia e che fosse capace di rivelare i progetti della natura a chi la indossava e che lei stessa, la parrucca, scegliesse il proprio o la propria padrona, investendola o investendolo con un refolo di viole. Si dice infatti che molte volte, viste le virtù che le erano attribuite, fosse stata rubata e altrettante volte, attraverso rocamboleschi ghirigori del destino, trovasse il modo di ritornare in possesso di chi riteneva degno del suo color di bosco, della sua lucentezza e del suo vento sottile al sentore di viole. 
Se ti va di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia "magica", prova a CLICCARE QUI!


0 Comments

Premiata ditta Civette&Figli

4/18/2021

0 Comments

 
Picture

La sua famiglia aveva un negozio al centro della piazza da tempo immemorabile.
Avevano sempre venduto di tutto, quella che la moda proponeva, loro facevano in modo di averlo, lo impacchettavano con quella carta leggera che aveva il colore del cielo velato di nuvole, ci mettevano un nastrino sgargiante chiuso con la ceralacca e il timbro di famiglia: "Civette&Figli" - vendiamo tutto dal mille...e poi facevano una svisa con il timbro perché appunto il tempo era immemorabile.
Però era tanto, tantissimo.
Il nonno del nonno del bisnonno vendeva i filtri d'amore e gli unguenti per le artriti nel medioevo, per dire, la nonna della bisnonna della cugina della figlia della trisavola vendeva i capelli per fare le parrucche in Germani e in Francia, tanto per capirci, lo zio del cognato del fratello dell'antenato Gino si diceva addirittura avesse venduto a Giuda la sacchetta per conservare i 30 denari.
La famiglia Civette era fatta dai migliori commercianti mai apparsi sulla faccia della terra, vendevano di tutto e lo facevano da sempre, adattarsi ai tempi era il loro marchio di fabbrica.
Certo, l'avvento di internet li aveva preoccupati, inutile negarlo! Mercato globale, mondo globale, giganti pronti ad una concorrenza spietata, manodopera nei paesi del terzo mondo a prezzi stracciati, bisognava capire come stare al passo.
Guglielmo Civette, ultimo erede della famiglia era però determinato, non sarebbe stato ricordato come colui che chiudeva la serranda di una bottega secolare, se non millenaria, non sarebbe per questo, nossignore!
Ma qual era l'articolo che corrispondeva alla più elementare delle regole di mercato? Qual era la nuova merce? Quella che non c'era prima e ora c'è? Il nuovo trend, si dice così, no? Qual era il nuovo trend?
Aprii Facebook, per farsi venire l'idea giusta, i Civette erano segugi, odoravano l'aria, la risposta era lì, in mezzo alla gente, reale o virtuale che fosse, bastava drizzare le antenne e il nuovo business si sarebbe rivelato, ne era sicuro!
Come prima cosa, scorse il profilo di una influencer quasi nuda che celebrava prodotti di bellezza, trucchi, tisane e raccontava di quanto amasse i suoi gatti. Lesse i commenti, nessuno sui prodotti, tutti su di lei, alcuni sulle tette, altri sulla sensibilità, altri ancora sui gatti e poi la solita sfilza di insulti ingiustificati di gente frustrata..."Ottimi compratori, comunque, i migliori!", annotò mentalmente Guglielmo Civette. C'era poi un motivatore disperatamente felice: parlava di quanto fosse salutare mangiare sano, recitare dei mantra, di quanto l'universo faccia tutto quello che vuoi a patto ovviamente di sorridere immotivatamente per tutto il tempo, tipo paresi, comunque c'era tutto sul suo libro, in vendita a soli 9 Euro e 99. Nei commenti, in molti sembravano aver comprato il libro ma nessuno sembrava averlo letto, commentavano gli abiti, la voce, la location, postavano aforismi fuori contesto, insultavano ovviamente.
Vide poi anche il profilo di un cuoco, di un interior designer, di un poeta, di un filosofo, di un prete, di un cane, di un adolescente problematico, di uno che faceva sculture con le caccole.
In testa aveva un sacco di confusione.
Tra tutte queste cose messe in vendita, quale prodotto è il prodotto più vincente? Se ne andò a dormire inquieto ma era stanchissimo e alla fine cadde in un sonno profondo popolato da incubi scuri che, tuttavia, sparirono nelle prime ore della mattina.
Quando aprì gli occhi aveva capito, come spesso succede, non aveva la risposta perché la domanda era sbagliata. Non doveva domandarsi cosa la gente stava vendendo, la domanda giusta era: "Cosa la gente stava davvero comprando?"
Nel giro di una settimana la nuova vetrina era pronta, enormi fogli di carta color cielo velato di nuvole erano impilati, metri e metri di nastro sgargiante erano disposti per essere arricciati, la cera lacca era sistemata accanto al fornelletto per sigillare ogni vendita.
La gente entrava a frotte, la gente comprava gente o si metteva in vendita, le due cose erano ormai quasi indistinguibili. 
"Non mi era mai capitato che il cliente e la merce fossero la stessa cosa!", pensò sorridente Guglielmo Civette, felice di aver salvato la antichissima attività di famiglia, "Faremo affari d'oro!", pensava, incartando un blogger.
"Signora! Vuole anche il depliant con la storia della nostra famiglia? Lo prenda, è scontato!"
Ti va di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia inedita? CLICCA QUI!

0 Comments

Le infrazioni dell'ordine delle cose

4/18/2021

0 Comments

 
Picture

La prima volta che aveva sentito parlare di lei era stato attraverso suo padre.
Era un fisico, dicevano. Lui, come prima cosa, pensò che fosse un insegnante di educazione fisica o un allenatore, che c'entrasse la ginnastica comunque.
Una famiglia nuova arrivava nel suo minuscolo paese, avevano affittato la casa in fondo alla strada, quella con quella bella vista sulla valle, un'altra famiglia di città che veniva a passare l'estate qui.
"Cosa ci troveranno mai!", pensava.
Quando arrivarono il padre era molto diverso da quello che pensava: pochi capelli, un buffo riporto, due occhiali spessi...strano, come allenatore.
La madre neppure se la ricorda ma la bimba sì, eccome se se la ricorda. Senza tanti giri di parole: era la cosa più bella che avesse mai visto, più bella del pallone che rulla in fondo alla rete, più bella della figurina che ti manca, più bella di "Novantesimo minuto"...certamente più bella di tutte le sue compagne di scuola, quelle rompipalle. 
Sentiva per lei un'attrazione che non sapeva spiegare, ma fortissima!
Giocarono insieme tutta l'estate, nel cortile, sotto i panni stesi. Fu, senza confronti, l'estate più bella della sua vita.
Dopo non si videro più, l'estate successiva la famiglia dell'allenatore, che poi era uno scienziato, scelse un'altra destinazione. Ci rimase male, sul principio, poi gli passò.
Ora lui lavora nella forestale, si è fatto un bell'uomo, dalle spalle forti e dallo sguardo dritto, vive una vita tranquilla, lavora all'aria aperta, fa una fatica trasparente, la sera torna a casa e guarda la TV di rado, qualche volta legge, qualche volta ascolta una trasmissione radiofonica, qualche volta esce e si beve un bicchiere, guadagna uno stipendio onesto, qualche volta gli basta, a volte vorrebbe di più, a volte non ci pensa proprio.
Una sera, ascoltando la radio, gli salta in testa l'idea bislacca di telefonare per partecipare ad un concorso, parlano di boschi, è il suo argomento. 
Vince e lo invitano ad una festa della radio.
Non che sia il suo ambiente ma perché non andare, in fondo?
Alla fine, va.
C'è un presentatore, sfilano gli speakers, lo chiamano sul palco, gli danno un piccolo premio, poi ci sono cantanti famosi, per gli altri, lui ne conosce un paio, sì e no, cantano, le luci sono belle, innaturali, gli piacciono e gli danno fastidio. 
Quando lo spettacolo finisce c'è il buffet ed è lì che pensa che forse avrebbe dovuto rimanere a casa, non conosce nessuno, non sa che dire ed anche sui gesti è insicuro, gli sembrano inadatti o artefatti, a volte gli sembrano i gesti di un altro. Si mette vicino al tavolo dei vini, beve, guarda, pensa che tra poco andrà.
"Posso?"
Stava ostruendo l'accesso, altri vogliono bere. In particolare una cantante, è famosa, la conosce pure lui, l'ha vista sul palco, ora la vede da vicino: la pelle chiara, esile, poco seno, un piccolo tatuaggio al centro della scollatura e la bocca rosa, schiusa, un'espressione ingenua e impertinente...strane cose da tenere insieme. E gli occhi! Enormi. Quelli davvero enormi, verdi e pieni di scintille come se un continuo big bang esplodesse ogni secondo.
Si scostò.
"Che ci fai qui solo?", chiese sicura. Ma non era sicura. Anche se aveva la voce ferma con toni scuri, una voce da donna, non da bambina, una voce che voleva sembrare sicura ma non lo era. 
Coraggiosa ma non sicura. 
"Eh, non conosco nessuno."
Lei si presentò.
"Ora conosci me."
"Sapevo già chi fossi.", disse lui.
"Sei un mio fan?"
"Credo di conoscere solo due tue canzoni...vale lo stesso per essere un fan?"
Lei rise.
"Stavo per andarmene." disse lui.
"Vengo con te, fa un caldo qua dentro..." disse lei.
Prima di uscire, lui si fermò sulla soglia, si girò e le disse: "Mi sono appena accorto che, se proseguiamo, se usciamo insieme da qui e facciamo una passeggiata, per dire, c'è il rischio concreto che mi innamori di te."
"E sarebbe tanto grave?" chiese lei seriamente interessata alla risposta.
"Sì per me lo sarebbe." si fermò, poi riprese: "Vabbè, se mi vuoi stropicciare il cuore te lo lascio fare."
"Abito vicino." disse lei.
Andarono a casa di lei e fecero l'amore, poi lei si addormentò e lui la guardò a lungo, poi osservò la casa, non grande ma raffinata, con tutti i soprammobili giusti, i premi che aveva vinto, era la cosa di una donna di successo, non come la sua che era calda, sì, ma sparpagliata, precaria.
Lì si rompe il primo pezzo di cuore, le regole del mondo non avrebbero permesso altro, già essere entrato in quel letto gli sembrava una svista momentanea, un'infrazione dell'ordine delle cose. 
Si alzò, sulla piccola scrivania c'era una foto incorniciata, due bambini sorridenti che giocavano felici in cortile sotto i panni stesi.
Uscì in strada alle primissime luci del giorno, un tram sferragliava, avrebbe preso un caffè.
Hai voglia di LEGGERE/ASCOLTARE un'altra storia inedita? PROVA QUESTA!
 


0 Comments

Le munitionettes

4/16/2021

0 Comments

 
Picture

Di solito si dice che il calcio sia un gioco da maschi, giocato da maschi, per maschi, a favore dei maschi, questo a parte il glorioso capitolo delle veline, intendo, infatti, quando ci sono i mondiali, quasi tutti quelli che hanno una fidanzata o una compagna sanno che, nel momento culminante di una partita, probabilmente lei ti chiederà di spiegarle il fuorigioco., per quello ai mondiali fanno cinque o sei replays, perché lo sanno, i primi tre li predi perché, per la quarta volta disponi i tappi di birra sul tavolino e simuli il movimento dei difensori.
Ma c'è un bellissimo capitolo della storia del calcio tutto al femminile, una storia taciuta per quasi un secolo.
Lily Parr e Alice Woods sono partite da Saint Helens e dalle sue miniere di carbone e carbonato di sodio per arrivare a Preston. Andavano lì per lavorare in fabbrica. Già, perché c'è la prima guerra mondiale, gli uomini sono tutti al fronte e la Dick Kerr's LTD ha bisogno di donne alla catena di montaggio, perché al fronte hanno bisogno di munizioni, le chiameranno "Munitionettes" o "canary Girls" perché a forza di stare vicino al TNT la pelle gli diventava gialla. 
6 giorni su 7, 12 ore al giorno, bisognava trovare un modo per alleggerire quelle ore di fatica, per non pensare alla guerra, per non piangere per i mariti e i fratelli lontani. 
L'idea è giocare a pallone. 
Sembrava che la stessa Inghilterra non stesse aspettando altro: voglia di evasione, necessità di fare beneficenza, pubblicità e la passione intatta degli inglesi per le scommesse fecero sì che le partite occasionali diventassero veri e propri campionati.
Centinaia di ragazze affinavano i piedi e accorciavano i calzoncini, i cortili delle fabbriche diventavano stadi e gli amici diventavano folle di pubblico pagante.
Le Botton ladies, le Lancaster ladies, le St. Helen's ladies e poi loro, le più forti, le Dick Kerr's ladies.
Nel 1920 furono tra le prime a giocare in notturna con il pallone dipinto di bianco, davanti a 12000 spettatori.
Secondo i taccuini di Alice Woods nel 1921, circa 900.000 persone andarono allo stadio a vedere questa squadra formidabile.
A Goodison Park, quello stesso anno, giocarono davanti a 53.000 persone, roba da pazzi, considerando che il Chelsea, in prima divisione, aveva fatto al massimo 37000 spettatori.
Insomma, potrei elencare altri numeri ma è meglio arrivare alla fine della guerra e al triste finale di questa storia.
Gli uomini tornano dal fronte e, all'improvviso, dopo oltre 800 partite di queste ragazze e 3500 gol tutti in rosa, la federazione decide che il calcio non è uno sport adatto alle femminucce, inizia a scoraggiarlo, ad ostacolarlo, fino a farlo quasi scomparire. 
Qualche anno fa, con un riconoscimento doveroso, anche se tardivo, questa squadra è stata inserira nella Hall of fame della storia del football.
Quindi, quando la vostra ragazza vi chiede si spiegarle il fuorigioco, non spazientitevi, magari raccontatele la storia delle munitionettes.
​Hai voglia di LEGGERE/ASCOLTARE la storia di un'altra grande donna? CLICCA QUI!

0 Comments

Le medicine per le anime in pena

4/16/2021

0 Comments

 
Picture

"Che poi era tutta una bugia...", disse il laureato, tutto rigido e strozzato nella sua cravatta seria.
"Adesso mettersi qua a capire cosa è vero e cosa è falso, sarebbe complicato, assai complicato!", pensò la vecchia. "Il fatto è che di vero-vero, oggettivamente vero...", pensa, "c'è ben poco. Ecco: la fame, la sete, il freddo, il caldo...ma se poi uno si avventura nelle credenze, nei sentimenti, quelle sono vie torte, matasse inestricabili, come fai a trovarci un inizio e una fine?"
"Il ragno non esiste.", ribadì il laureato. Si faceva avanti, non mollava, alzava il tono, arricciava gli angoli della bocca, "E neppure il veleno c'è, neppure quello, tutto un teatro!" 
"Aveva sicuramente ragione.", pensava la vecchia, mentre apriva le ante della cucina, 
"Ma la gente si contorceva davvero, mica era una scenetta quella, c'era il dolore, c'era la stanchezza, la solitudine, la fatica, c'era lo spaesamento e una medicina andava pur trovata per curare quelle povere anime in pena, mica si poteva lasciarle lì senza un filo di luce o un briciolo di speranza?!"
Bisognava forse rispondere così ma lei preferì richiudere le ante e aprire il barattolo, tamburellò sul tappo, faceva un bel suono.
"I suoni!", ricordò, "Può darsi pure che i suoni fossero solo suoni e che il ritmo solo un ritmo e che i nastri di tutti i colori solo un arcobaleno inutile ma quelle sceglievano il ritmo loro e il colore, le sceglievano queste cose! Ed era bello perché c'era la musica e tutta la gente era lì per loro, attorno, avevano bisogno, lo gridavano e la gente andava lì per loro, era come dirgli: "Guardate che ci importa, abbiamo messo su questo "teatro", come lo chiamava lui, aveva detto "teatro", vero?", la vecchia pensò che non aveva più la testa tanto buona per ricordare le parole precise, "Ma sì, le sembrava che avesse detto "teatro", quindi, era come dire, abbiamo messo su questo "teatro" solo per te, cantiamo, balliamo, muoviamo i tamburi e i nastri e stiamo qui finché non ti calmi, finché non guarisci e poi ricominciamo 'sta vita insieme, per balorda che sia."
"Non esiste quella roba lì, non esiste.", mise un punto il laureato, risoluto, definitivo, tagliente.
"ma probabilmente aveva ragione.", pensò la vecchia, "quando uno è così deciso si vede che ha ragione, sennò le cose le dice tentennando, propone, consiglia, azzarda, non è che sentenzia, indica, dichiara. Quando uno è così sicuroo, avrà ragione.", pensa, mentre il cucchiaino si infila dentro il barattolo e riemerge versando la polvere di caffè nella moka.
"Lo vuoi il caffè?" chiede la vecchia e si sorprende della sua voce, non la usava da un bel po' ormai, aveva ascoltato, quello sì, e anche pensato tanto, tanto insomma, un po', il giusto, aveva pensato quello che le veniva da rispondere ma che poi non aveva risposto. E quindi la voce se ne era stata dentro, usciva solo adesso per il caffè.
"Grazie, sì", disse il laureato con un sospiro, si sentiva che non aveva ancora finito di dire. "Posso avere anche un bicchier d'acqua, devo prendere una pastiglia."
"Certo!", disse la vecchia, "stai male?"
"È un antidepressivo, mi tiene un po' su."
La vecchia, mentre aspettava che salisse il caffè, versò l'acqua nel bicchiere, il laureato si raccomodò i capelli all'indietro e buttò giù acqua e pastiglia in un sorso.
"Ora che torni a casa", chiese la vecchia, "sei contento che rivedi la fidanzata? Gli amici?"
"Non sono fidanzato.", disse il laureato con un sorriso bonario, come a dire che una donna non gli serviva, scherzando ovviamente, almeno un po'.
"Si riprende subito a lavorare, gli amici magari li vedo il weekend."
"Il weekend era il sabato e la domenica", fece mente locale la vecchia, lo aveva già sentito, era una parola americana.
Pensò che ogni epoca c'aveva le sue medicine, bisogna pur inventarsi qualcosa per le anime in pena, pensava che magari il sabato e la domenica gli amici lo avrebbero aiutato a stare un po' su, anche se, se ne aveva bisogno, forse non bisognava aspettare il weekend. Ecco! Ora pensava anche con le parole americane!
Versò il caffè. "Meglio.", pensò.
Se lo bevvero in silenzio. Poi lui andò e lei restò.
Ci sono altre storie antiche che forse ti piacerebbe LEGGERE/ASCOLTARE. Prova QUESTA!

0 Comments

Il rigore più lungo del mondo

4/16/2021

0 Comments

 
Picture

Questa è la storia del rigore più lungo del mondo.
La Estrella Polar era la squadra di un circolo di ubriachi che giocavano a pallone proprio perché la domenica non c'era un cazzo da fare ed erano la squadra più scarsa del torneo.
Nel 1958 avevano vinto, così, all'improvviso, contro l'Escudo Cileno, un'altra squadra di miserabili come loro, infatti, lì per lì, nessuno ci fece tanto caso ma quando iniziarono ad inanellare quattro vittorie di fila la gente iniziò a parlarne.
Andavano allo stadio per vedere quando avrebbero perso perché sembrava impossibile che una squadra così scarsa continuasse a vincere, anche solo per 1 a 0.
Erano lenti come somari, pesanti come armadi, urlavano come maiali e, quando passavano davanti alla panchina, l'allenatore, per incitarli, usava una verga di vimini. 
Tutti ridevano ma intanto questi qua continuavano a vincere, essendo così scarsi e giocando così male. Poi, quando avevano vinto, andavano a festeggiare al bordello della gorda Zuléma, e in paese cominciavano anche a diventare dei piccoli idoli, i vecchi li applaudivano, i commercianti regalavano loro delle caramelle da dare ai bambini e il sabato sera, quando andavano al cinema, le ragazze si facevano accarezzare sopra il ginocchio.
Insomma, ad una giornata dalla fine, stavano un punto sotto il Deportivo Belgrano e dovevano andare a giocare in casa loro, un posto sperduto in Valle Rio Negro.
Ma capirai! Quella era una grande squadra! I campioni di sempre! La grande squadra di Constante Gaúna e Tata Cardìles. All'andata avevano preso 7 gol e andare là a vincere era un'impresa impossibile. 
Stadio gremito. 500 persone erano partite per andare a vedere l'Estrella, si erano messi dappertutto ed erano così agitati che, la sera prima, la polizia, per tenerli calmi, aveva dovuto attivare gli idranti.
Arbitra l'incontro Erminio Silva, un epilettico che vende biglietti al circolo locale. 
Al 40esimo del secondo tempo, incredibile, stanno ancora 1 a 1 e i giocatori del Belgrano si buttano in area per farsi dare un rigore ma l'arbitro integerrimo quei rigori non li dà...e poi, in fondo, il Deportivo, con il pareggio, è ancora campione.
Ma restarono tutti a bocca aperta quando, a due minuti dalla fine, la mezzala sinistra dell'Estrella Polar infila una punizione da 30 metri.
Nessuno ci poteva credere! Deportivo Belgrano 1 - Estrella Polar 2.
A quel punto l'arbitro che, sì, era integerrimo ma teneva anche al suo posto di lavoro, allunga la partita fino a quando Padìn entra in area e, con il difensore ad un metro e mezzo, si lascia cadere a terra.
Rigore!
Ribero, l'ala destra dell'Estrella, la prende bene: centra l'arbitro con un pugno in faccia! Parte una rissa che non finisce più, tanto che viene sera e il commissario è costretto da entrare in campo con una lanterna e a sospendere la partita.
Secondo il tribunale della Lega bisognava giocare ancora 20 secondi, a partire dal tiro del calcio di rigore, a porte chiuse, la domenica successiva.
Constante Gaùna, il puntero del Deportivo, contro il quarantenne portiere dell'Estrella Polar, el gato Diaz.
Il mercoledì c'era tutto il paese al campo di allenamento dell'Estrella, tutti volevano allenare il portiere, tutto il paese in fila per tirargli un rigore e lui ne parò anche parecchi, anche per molti calciavano in ciabatte.
La sera, al circolo, dopo aver mangiato, il gato Diaz, all'improvviso, con lo stecchino in bocca, disse: "Constante li tira a destra!"
"Sempre!", disse il presidente.
"Sì, ma lui sa che io so."
"Ah già, allora siamo fottuti."
"Eh sì, ma io so che lui sa."
"E allora buttati a sinistra!", disse un altro. 
"Eh no! Perché lui sa che io so che lui sa."
E se ne andò a dormire così.
Il giorno dopo non andò all'allenamento, lo trovarono a camminare sui binari, il garzone del ciclista gli domandò, così, a bruciapelo: "Lo pari?"
"Se la rubia Ferreira mi dice che mi vuole bene, io lo paro!"
Venerdì il sindaco entrò nella merceria della rubia Ferreira con un mazzo di fiori.
"Devi fidanzarti con il gato, almeno fino a lunedì!"
"Oh! Pobrecito...", disse lei.
Uscirono insieme ma lei non lo baciò, lo avrebbe baciato solo se avesse parato quel rigore!.
Alle 3 del pomeriggio della domenica successiva, le squadre scesero in campo. L'arbitro, come prima cosa, espulse il cholo, per il pugno che aveva preso in faccia la domenica precedente.
Constante gaùna mise la palla a 12 passi d'uomo dalla porta, perché il dischetto non c'era ancora, e il gato si mise fra i pali. Si era messo la brillantina. I suoi capelli bianchi, sotto al sole, brillavano come una pentola di alluminio.
Centinaia di persone erano state fermate alle porte del paese, seguivano la partita grazie a tre o quattro ragazzini che avevano disposto sui tetti, potevano vedere il campo e facevano arrivare le notizie. 
Fischia Erminio Silva, Constante Gaùna parte, el gato va a destra, Constante calcia al centro ma, in quel momento, l'arbitro viene còlto da un attacco di epilessia, sbava dalla bocca, sviene, el gato tocca con il piede, respinge, arriva di corsa Mirabelli, el petiso, e mette in corner.
Tutti festeggiano anche a chilometri di distanza ma nessuno si accorge che il guardalinee sta arrivando e sta dicendo: "Non vale!"
Quando l'arbitro si riprende dice che non ha visto, che bisogna tirare di nuovo, rischiando di nuovo di farsi pestare.
Sta per scoppiare una rissa ma el gato interviene, ferma tutti e dice: "Dobbiamo sbrigarci perché io stasera ho un appuntamento." 
Constante Gaùna tentenna, tira a destra, el gato va in quella direzione, con un'eleganza e una sicurezza che non avrebbe mostrato mai più.
Il sudamerica è ricco di storie magiche, prova a LEGGERE/ASCOLTARE questa! CLICCA QUI!

0 Comments

Craig e il polpo

4/15/2021

0 Comments

 
Picture

Esistono forme di vita, incontri, modi di comunicare, mondi da abitare che non riusciamo neppure ad immaginare.
A Western cape, Sudafrica, c’è un signore che si chiama Craig Foster, ha passato tutta la vita a fare il reporter e adesso è tornato dove passava le estati da bambino, in quel cottage di legno talmente vicino al mare che, nelle giornate di burrasca, l’acqua allaga il pavimento.
Ma lui c’è abituato alle tempeste, western cape è chiamato anche “capo delle tempeste”, non è che ti puoi stupire se ti ritrovi l’atlantico in salotto.
È tornato lì dopo un lavoro nel Kalahari centrale. Ha seguito per un periodo i migliori cacciatori del mondo. Erano in grado di scovare segni, orme, segnali, dove Craig non vedeva assolutamente niente. Erano una cosa sola con la natura. Craig invece si sentiva un corpo estraneo e questo ha iniziato a farlo star male.
Torna in quel cottage sotto il livello del mare e decide di iniziare ad immergersi.
Non è facile da quelle parti.
I fondali sono pieni di foreste di kelp, le onde spesso sono violente e le scogliere aguzze, la temperatura dell’acqua, per di più, è di circa 8-9 gradi, quando ti immergi ti toglie il fiato.
Ci vogliono 10-15 minuti prima che il corpo si rilassi.
Ma poi è bello: ti sembra di volare sopra una foresta.
Tra l’altro lui sceglie di non mettersi la muta, per quella sua fissa di “far parte”.
Non vuole mettere barriere, solo lui e quel che incontrerà.
Un giorno, alla sinistra del suo campo visivo, sfreccia qualcosa di insolito. Lo segue. Sembra un mucchio di conchiglie ma in realtà è un polpo, un polpo femmina per essere precisi, che si nasconde sotto un mucchio di conchiglie attaccate alle sue ventose.
Si scrutano, lei si spaventa, si avvolge in un’alga, lo fissa, poi sparisce.
Difficile da descrivere, d’altronde è anche difficile da immaginare ma, come abbiamo detto, questa è una storia diversa, perché esistono forme di vita, incontri, modi di comunicare, mondi da abitare che non riusciamo neppure ad immaginare.
Craig sente un legame con quella creatura lì, gli è simpatica, diciamo, in fondo non è quello che accade con le persone? Alcune ci risultano simpatiche, altre antipatiche, a pelle, come si dice, verso alcune sentiamo un trasporto anche se non le conosciamo. A pelle. Succede. E a Craig succede con un polpo.
E allora gli salta in testa in un’idea davvero balzana. Immergersi ogni giorno per vedere cosa succede.
Inizia ad andare davanti alla tana di questa bestiolina, si guardano, a lungo.
Lei si ancora con tutti i tentacoli all’interno della piccola caverna, in caso di pericolo potrebbe rientrare rapidissimamente.
Passano diversi giorni, poi avviene qualcosa di speciale.
Lei tira fuori un tentacolo e Craig porge un dito. Lei inizia ad incollare le sue ventose al dito, lo avvolge, lo tasta…
Ma Craig, dopo un po’, deve tornare in superficie a respirare.
Ritorna il giorno dopo e per altri giorni, finché la fiducia cresce e il polpo esce dalla tana, Craig retrocede, nuotano assieme ma a Craig cade una lente della telecamera.
Quello scintillio improvviso terrorizza l’animale che sparisce a gran velocità.
Per oltre una settimana, lui non la trova più, ha cambiato tana…difficile trovare un animale che ha passato milioni di anni a capire come non farsi vedere.
Ma si vede che, ad un certo punto, decide di farsi ritrovare ed eccola lì, alza un tentacolo, sembra che saluti un vecchio amico…si avvicina, addirittura si posa sul dorso sulla sua mano…Craig è costretto a tornare in superficie, ma lei non si stacca, lo accompagna, si fida completamente ora, nuotano insieme, lei si appoggia sul suo corpo senza timore.
Due terzi del suo corpo costituiscono la sua coscienza, letteralmente sente, pensa e agisce con circa 2000 ventose, completamente indipendenti una dall’altra, 2000 dita…
 Craig un giorno vede la sua amica attaccata da un piccolo squalo, non può fare nulla, solo osservare come, nonostante lei si nasconda sul fondo di un anfratto, lo squalo riesca a reciderle un tentacolo e ad andarsene via.
Nei giorni successivi Craig torna a vedere come sta…ha perso il suo colore cangiante, è bianca, soffre, non può procacciarsi il cibo, resta immobile sul fondo di un anfratto…
Pian piano però il tentacolo ricresce, riprende vigore, supera il momento, dopo 100 giorni è come nuovo, possono ancora nuotare insieme.
La storia deve finire ora e non può che finire in modo poetico come poetico è questo rapporto anfibio e fiabesco.
Craig si immerge e vede che accanto a lei c’è un polpo molto più grande. Sono rilassati. Si stanno accoppiando.
Craig da una parte è estasiato, dall’altra triste perché nel frattempo, nelle sue ore fuori dall’acqua, si è messo a studiare la vita dei polpi e sa cosa accadrà.
Lei si raccoglie sul fondo della tana, perde peso, colore, energia perché tutta quella che ha le serve per tenere al caldo le uova, farle crescere.
Quando si dischiuderanno, lei morirà.
Ed è così che avviene.
Quando le uova si schiudono, lei si trascina fuori dalla tana, è viva a stento, si adagia sul fondo.
Piccoli animali si nutrono di pezzi del suo corpo, è una scena straziante ma naturale.
Il giorno successivo passa uno squalo e la trascina lontano senza che lei opponga nessuna resistenza.
Aveva fatto quello che la sua natura prevede: dare la vita affinché ci fosse ancora vita, quella più grande, quella della specie, quella dell’universo intero forse perché Esistono forme di vita, incontri, modi di comunicare, mondi da abitare che non riusciamo neppure ad immaginare.
Un'altra storia di mare? Te ne propongo una molto meno rassicurante! LEGGILA/ASCOLTALA QUI!

0 Comments
<<Previous

    Archivio

    November 2022
    October 2022
    September 2022
    August 2022
    July 2022
    June 2022
    May 2022
    March 2022
    February 2022
    January 2022
    December 2021
    November 2021
    October 2021
    September 2021
    August 2021
    July 2021
    June 2021
    May 2021
    April 2021
    March 2021
    February 2021
    January 2021

    Categorie

    All
    L'arca Di Bidè
    L'arca Di Bidè
    Storie Notturne Per Persone Libere

    RSS Feed

Powered by Create your own unique website with customizable templates.
  • Home
  • Chi sono
  • Blog
  • PODCAST
  • EVENTI
  • Collab
  • Contact