Dopo aver stabilito il prezzo delle sue voglie, come diceva DeAndrè, quando queste voglie venivano soddisfatte, si rimetteva a discutere sul prezzo per sbattere contro la rabbia dei ragazzi che pagava. Poi avrebbe ceduto e pagato quanto concordato. Un’immagine che dà fastidio, vero? Lui dava fastidio. Era una scarica elettrica, una mina, tutte le volte che faceva, tutte le volte che parlava. Sconvolgeva. Ma dare scandalo, fare scandalo, non era la sua intenzione, lui semplicemente, che si trattasse di testa o di corpo, tirava fuori lo sporco da sotto il tappeto, il suo e quello degli altri. Una vita violenta. Un’espressione violenta. Una voce che l’Italia di allora e probabilmente anche quella di oggi, non sapeva reggere. 45 anni fa, il 2 novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini, veniva massacrato all’idroscalo di Ostia. Quello che è successo, quello che è davvero successo, intendo, non è mai stato chiarito fino in fondo. Le sue iniziali mi hanno sempre colpito, forse perché 3 P sono inusuali. Parto da lì, le uso, uso le sue iniziali per raccontare 3 aspetti del più grande intellettuale che abbiamo avuto, nonostante tutto, forse grazie a tutto quello che è stato. Tre parole che iniziano per P: Pugno, Pallone e Poesia. Il Pugno è quello nello stomaco, dei suoi pensieri affilati, violentissimi eppure offerti con gentilezza che scuotevano, indignavano e offendevano chiunque li ascoltasse. Perché chirurgici, entravano sotto la carne, scardinavano l’entusiasmo di un Italia che sembrava crescere, progredire, emanciparsi ed invece non si accorgeva che stava perdendo pezzi di umanità, identità, cultura. Lui raccoglieva ogni pezzo e lo mostrava, spietato. Gridava, sottovoce, che la civiltà dei consumi è un fascismo ancora più cattivo, non è una parata ma cambia la testa della gente. Oggi forse iniziamo a capire cosa intendesse. E non faceva l’intellettuale da salotto, ci metteva il corpo, le sue contraddizioni, la sua omosessualità, si lasciava massacrare anche in vita, trafiggere come San Sebastiano da scrittori, giornalisti, giudici. Ebbe a che fare con la giustizia fino all’ultimo giorno della sua vita. È stato sacro e sacrificato, come ha scritto qualcuno. C’è poi la parola pallone. Parlando di sacralità, per lui, il calcio era l’ultimo rito sacro. Sacro perché rimaneva uno spazio in cui si poteva stare al mondo in un altro modo. In un campo da calcio il gol rappresentava un obiettivo comune, che si poteva raggiungere con un’azione fatta insieme, che culminava in un’estasi collettiva. Non era vincere la cosa importante. Si poteva fallire. Ma segnare, farlo insieme, era la straordinaria metafora del calcio. La terza parola è poesia. Lui era un poeta, come disse Moravia al suo funerale. Un uomo capace di dare parola alle cose, di far vivere mondi, di dare voce a chi non l’aveva. La sua stessa vita era poesia, sporca e sublime, scandalosa e retta, magnifica e tragica. Una vita amata in maniera feroce, vorace, una vita divorata. Tanto amata da denunciare disperatamente tutte le volte che vedeva perdersi pezzi di vitalità. Quando si rivolge ai pericolosi obbedienti e dice loro che se non ci fosse la società dei consumi a proteggerli perché consumatori, sarebbero già morti, dice loro che non vivono per merito ma si trascinano nell’esistenza. Dà fastidio anche questo, vero? Ma dà fastidio perché fa esplodere un dubbio che abbiamo tutti: non farò parte anch’io di questi qua? E servirebbe oggi gente così, capace di una critica radicale, ora che la tecnologia ci fa andare sempre più velocemente ma manca chi ci dica in quale direzione, come e con chi. Manca chi ci ricorda di non dimenticarci pezzi di vita, di slancio, di entusiasmo, di cuore, di umanità, in definitiva, di amore.
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December 2022
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