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PPP: Pier Paolo Pasolini

3/18/2021

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Dopo aver stabilito il prezzo delle sue voglie, come diceva DeAndrè, quando queste voglie venivano soddisfatte, si rimetteva a discutere sul prezzo per sbattere contro la rabbia dei ragazzi che pagava. Poi avrebbe ceduto e pagato quanto concordato. Un’immagine che dà fastidio, vero? Lui dava fastidio. Era una scarica elettrica, una mina, tutte le volte che faceva, tutte le volte che parlava. Sconvolgeva. Ma dare scandalo, fare scandalo, non era la sua intenzione, lui semplicemente, che si trattasse di testa o di corpo, tirava fuori lo sporco da sotto il tappeto, il suo e quello degli altri. Una vita violenta. Un’espressione violenta. Una voce che l’Italia di allora e probabilmente anche quella di oggi, non sapeva reggere. 45 anni fa, il 2 novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini, veniva massacrato all’idroscalo di Ostia. Quello che è successo, quello che è davvero successo, intendo, non è mai stato chiarito fino in fondo. Le sue iniziali mi hanno sempre colpito, forse perché 3 P sono inusuali. Parto da lì, le uso, uso le sue iniziali per raccontare 3 aspetti del più grande intellettuale che abbiamo avuto, nonostante tutto, forse grazie a tutto quello che è stato. Tre parole che iniziano per P: Pugno, Pallone e Poesia. Il Pugno è quello nello stomaco, dei suoi pensieri affilati, violentissimi eppure offerti con gentilezza che scuotevano, indignavano e offendevano chiunque li ascoltasse. Perché chirurgici, entravano sotto la carne, scardinavano l’entusiasmo di un Italia che sembrava crescere, progredire, emanciparsi ed invece non si accorgeva che stava perdendo pezzi di umanità, identità, cultura. Lui raccoglieva ogni pezzo e lo mostrava, spietato. Gridava, sottovoce, che la civiltà dei consumi è un fascismo ancora più cattivo, non è una parata ma cambia la testa della gente. Oggi forse iniziamo a capire cosa intendesse. E non faceva l’intellettuale da salotto, ci metteva il corpo, le sue contraddizioni, la sua omosessualità, si lasciava massacrare anche in vita, trafiggere come San Sebastiano da scrittori, giornalisti, giudici. Ebbe a che fare con la giustizia fino all’ultimo giorno della sua vita. È stato sacro e sacrificato, come ha scritto qualcuno. C’è poi la parola pallone. Parlando di sacralità, per lui, il calcio era l’ultimo rito sacro. Sacro perché rimaneva uno spazio in cui si poteva stare al mondo in un altro modo. In un campo da calcio il gol rappresentava un obiettivo comune, che si poteva raggiungere con un’azione fatta insieme, che culminava in un’estasi collettiva. Non era vincere la cosa importante. Si poteva fallire. Ma segnare, farlo insieme, era la straordinaria metafora del calcio. La terza parola è poesia. Lui era un poeta, come disse Moravia al suo funerale. Un uomo capace di dare parola alle cose, di far vivere mondi, di dare voce a chi non l’aveva. La sua stessa vita era poesia, sporca e sublime, scandalosa e retta, magnifica e tragica. Una vita amata in maniera feroce, vorace, una vita divorata. Tanto amata da denunciare disperatamente tutte le volte che vedeva perdersi pezzi di vitalità. Quando si rivolge ai pericolosi obbedienti e dice loro che se non ci fosse la società dei consumi a proteggerli perché consumatori, sarebbero già morti, dice loro che non vivono per merito ma si trascinano nell’esistenza. Dà fastidio anche questo, vero? Ma dà fastidio perché fa esplodere un dubbio che abbiamo tutti: non farò parte anch’io di questi qua? E servirebbe oggi gente così, capace di una critica radicale, ora che la tecnologia ci fa andare sempre più velocemente ma manca chi ci dica in quale direzione, come e con chi. Manca chi ci ricorda di non dimenticarci pezzi di vita, di slancio, di entusiasmo, di cuore, di umanità, in definitiva, di amore.
C’è una poesia, scritta da Roberto Lerici e Gigi Proietti, si intitola “Questo amore” e racconta proprio di quando la vita si perde e si fa addomesticata… Gli effetti di quando il potere cambia e da autoritario, si fa permissivo, come scriveva Pasolini.
Per un altro grandissimo del palcoscenico, ascoltate, se vi va, il PODCAST su Andy Kaufman
Il podcast di oggi non è proprio una storia, lo avrete capito, è un doppio omaggio: ad un intellettuale che ammiro molto, ad un gigante del palcoscenico che ho conosciuto e con il quale ho avuto il privilegio di lavorare nella mia piccolissima vita artistica.

La poesia fa così:
Quest’amore malato, denutrito, fatto di parole smozzicate;
quest’amore usato, digerito, buttato in pasto al popolo ignorante, come fosse una cosa interessante.
Quest’amore corrotto dalla noia dei grandi amatori della storia, masticato da cento letterati, vomitato da principi, prelati;
quest’amore che accoglie, che perdona, fatto per gente dalla bocca buona,
è un amore di fradicia letizia, che assolve tutto, pure l’ingiustizia;
quest’amore sciancato, deficiente, sbattuto sulla faccia della gente, come l’osso al cane disperato;
quest’amore scarnito, rosicchiato, coi suoi stracci di corpo denudato;
quest’amore di cui si parla tanto, celebrato con tutte le gran casse;
quest’amore è disceso fra le masse, elargito per grazie del potere perché tutti ne possano godere,
è un amore deforme, malandato, generato dal vecchio capitale tra le cosce del mondo occidentale.
Per questo amore è meglio non cantare, perché non c’è una musica che tenga
e questa mia canzone sgangherata, non so nemmeno cosa la sostenga.
Avesse almeno la grazia più scolata di una puttana, sola, disperata, piuttosto che la facile malìa, il fascino merdoso di questa borghesia!
Ma quell’amore, che era una certezza, si è assopito con l’ultima carezza.
Ha ripiegato pian piano le sue foglie, rinunciando per ora alle sue voglie.
L’anima mia per questo si è ammalata…, non sogna più, e resta addormentata.
Prima che il vuoto tutto ci divori, che venga, venga presto il tempo in cui ci si innamori.
Prima che il vuoto tutti ci divori, che venga, venga presto il tempo in cui ci si innamori.

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