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Che ha fatto di male Spinoza?

12/30/2021

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Non c’è molta gente sulle sponde del canale di Amsterdam in quella mattina del 1640. È insolito, normalmente le persone brulicano lì, si commercia: grano dalla Polonia, gioielli dalla Turchia, aringhe dal Baltico, zucchero dal Brasile ma anche tabacco, smeraldi, cocciniglia, indaco… Nel quartiere ebraico le persone stanno per uscire dalla sinagoga, ha appena avuto luogo la punizione di Uriel da Costa, 39 frustate per essere riammesso nella comunità. Ora è sdraiato sulla porta del tempio, nudo dalla cintola in su, tutti dovranno calpestarlo prima di uscire. Alcuni lo fanno senza infierire, altri calcano sulle ferite. Pochi giorni dopo Uriel Da Costa si toglierà la vita. Sopra di lui, con passo incerto e un timore mal celato è passato un bambino. Quell’episodio segnerà profondamente il suo pensiero, un pensiero ritenuto così pericoloso che, 16 anni più tardi, si troverà lui stesso di fronte al rabbino ad ascoltare il suo herem, parole di una violenza inaudita, che lo separano, questo significa “herem”, dal consesso civile. “Con l’aiuto del guidizio dei Santi e degli Angeli, escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch Spinoza con il consenso di tutta la Santa Comunità, alla presenza dei Santi Libri e dei 613 precetti che vi si trovano racchiusi. Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra. Nessuno comunichi con lui, neppure per iscritto, né gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né gli si avvicini più di quattro cubiti, né legga alcun trattato composto o scritto da lui.” Ascoltare queste parole, conoscere questi riti e consuetudini ci porta ad un tempo che ci pare barbaro e lontano ma non è affatto così: questo herem, questa sorta di scomunica che vi ho appena letto, è stata rinnovata pochi giorni fa. No, non state ascoltando un podcast del 1700 o del 1800, è tutt’ora in vigore, tanto che il 30 novembre scorso, il rabbino Joseph Serfaty, capo spirituale della comunità sefardita di Amsterdam, ha negato al professore Yitzhak Melamed, che stava realizzando un documentario sul filosofo, il permesso di accedere alla sinagoga e alla biblioteca della comunità, in quanto “persona non grata”. Insomma, Baruch Spinoza è a tutt’oggi respinto e rifiutato dalla sua comunità, 344 anni dopo la sua morte. Cos’è che, del pensiero di quest’uomo, spaventava così tanto e, ancora oggi, a più di tre secoli di distanza, fa ancora così paura?
E pensare che, al momento della scomunica, non aveva neanche ancora pubblicato. Evidentemente però le sue idee già giravano.
Baruch Spinoza fu un molatore di lenti, molto bravo, ci tramandano gli storici, attraverso le sue lenti la luce filtrava nella maniera giusta, esatta, educata.
Lui sosteneva che ogni persona conserva in sé una luce, una scintilla, un lume che, se educato sa farsi giusta, esatta. Lui sostiene che ogni persona abbia in sé il lume dell’intelletto, del discernimento che, se coltivato, alimentato, protetto, gli permette di decifrare la realtà senza intermediari. Non più capipopolo, non più direttori, presidenti, vescovi, papi, guru. Ogni uomo è come una lente che, se ben molata, permette che le luci filtri in maniera giusta, corretta, educata.
Credo sia per questo che a più di tre secoli di distanza il pensiero di Baruch Spinoza fa ancora così tanta paura.
Vi piacciono le storie di epoche buie? Provate a LEGGERE/ASCOLTARE qui!

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L'uomo che ha ingannato Flavia Vento

12/20/2021

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Non avrete potuto sottrarvi, nel corso della settimana appena trascorsa, dall'incresciosa questione in cui, suo malgrado, è stata coinvolta Flavia Vento, ingannata da un truffatore spacciatosi per Tom Cruise. In esclusiva per questo blog, la confessione dell'uomo.

Sono stato io, lo confesso. Me ne pento, mi dispiace, mi dispiace Flavia.
Sono io che per mesi mi sono finto Tom Cruise.
Non so perché l’ho fatto, sarà stata la pandemia, i lockdown, tutta la noia e l’ansia che ne è derivata, la disforia che la pandemia ha arrecato a tutti, con me è stata particolarmente violenta. Non mi sentivo adeguato nell’approcciarmi a Flavia così com’ero, necessitavo di sentirmi migliore, di sentirmi come Tom, un uomo capace di mission impossible: tipo capire l’intricato sistema di tamponi, mascherine, green pass; tipo capire il senso della ripetizione ipnotica della parola resilienza; tipo capire perché mai ci fosse qualcuno convinto che #andràtuttobene. Così, in una notte di pioggia, mi sono messo lì, con la foto di Tom nel film codice d’onore, quando si incazza con Jack Nicholson, appesa di fronte alla mia scrivania, a ideare il piano criminale. Dovevo studiare a fondo la personalità di Tom, altrimenti non sarei riuscito a gabbare Flavia.
Non è stato affatto facile.
Nonostante la caparbietà con la quale, per settimane, ho fatto questo gesto e mi sono soffiato via la frangia immaginaria, sognarmi con il ciuffo è stato complesso. Lui è americano poi! La nazionalità mi ha creato molti problemi, non ho mai ben capito l’utilizzo di could e would, a tutt’oggi se parlo USA tendo ad evitare il condizionale. Chissà se Tom usa il condizionale, forse no, perché i ricchi non usano il condizionale, usano l’indicativo o l’imperativo che anch’io so usare bene anche se faccio la spesa alla Lidl.
La mia povertà mi ha messo i bastoni fra le ruote anche quando ho dovuto immaginare di fare parte di Scientology, dottrina che prevede un abbonamento premium che mi condannerà per sempre fra i peccatori.
Ma la cosa più difficile è stata senz’altro immaginarmi basso. Non lo sono mai stato, neanche da bambino, ero basso per essere un adulto ma per essere un bambino sono sempre stato piuttosto alto.
Ma con la costanza, la meditazione e un regime alimentare ricco di fibre, sono arrivato a disprezzare i centimetri che mi separavano da Tom, a pentirmi della mia stupida esuberanza adolescenziale che mi ha spinto scriteriatamente verso l’alto.
Oggi, grazie a quel lavoro, sono riuscito ad odiare non solo i miei centimetri in eccesso in altezza, ma anche quelli in larghezza, non quelli in profondità, che lì, anzi, se ci fossero, vabbè, sto divagando.
Insomma alla fine del mio lavoro mi sono sentito pronto a contattare Flavia.
E, nonostante i miei timori, tutto ha funzionato bene fin dal primo momento, lei era coinvolta, anche se sbagliavo could o would non ci faceva caso, insomma anche grammaticalmente abbiamo scoperto di avere un sacco di cose in comune, sia in inglese che in italiano.
Avrete capito insomma che per me non è stato un gioco, io ci ho messo sopra un bel carico di sentimenti, ecco…ed è per questo che una sola cosa voglio dire: l’idea di chiederti dei soldi non è stata mia, Flavia, quello è mio cognato che deve cambiare la macchina che gli si è già fermata tre volte, e lui che mi ha craccato l’account e ti ha scritto perché io non lo avrei mai fatto! Io sono solo uno spasimante che, per la disforia del covid, sentendosi svalutato, non ha avuto il coraggio di proporsi a te così com’è, nudo e crudo, ma ha preferito nascondersi dietro l’uomo nato il 4 luglio.
Io non sono neanche nato d’estate, per dire.
Non ho avuto il coraggio di seguire il mio cuore allora, mostrandomi, e non ce l’ho neppure ora, anche se ora, più che mancanza di coraggio di seguire il cuore, è la ferma decisione di seguire i consigli del mio avvocato che dice che è meglio se resto anonimo.
Sappi però Flavia che, anche se le tue amichette sospettose anche questa volta ti metteranno in guardia, nascosto fra la virtuale folla del web, vi è un uomo che t’ama.

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Il calendario di Nikla

12/2/2021

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Kástegor era un villaggio nascosto in mezzo alle enormi conifere dei boschi del nord.
Oltre la grande foresta una montagna appuntita con sulla sommità, una specie di enorme sfera, che i vecchi chiamavano “Il grande sasso”, arrivava a bucare le nuvole e, per tutto l’anno, impediva ai raggi del sole di illuminare quella manciata di case di legno ingrigito dal gelo.
Dalla parte opposta scorreva invece il grande fiume, un impetuoso canalone che veniva giù violento dalle cascate e formava sotto il pelo dell’acqua un fitto intreccio di rapide, mulinelli e gorghi spaventosi il cui risucchio generava un rumore sordo che, soprattutto durante le notti, svegliava i bambini o faceva loro sognare draghi e antri infernali.
A Kástegor non si conoscevano giorni di festa.
A nessuno era mai venuto in mente che ci fosse qualcosa da celebrare, i giorni scorrevano uguali, il freddo non faceva crescere il grano o iniziare la primavera, il buio era ininterrotto e il vento scuoteva gli alberi e sputava neve ogni giorno e ogni notte che, a dire la verità, erano quasi uguali. Perciò nulla segnava un primo e un dopo, un momento particolare, una ricorrenza. Nessuno aveva mai avuto la fantasia di festeggiare.
Al massimo, quando ci si sentiva abbastanza intraprendenti, si poteva uscire di casa e visitare qualche paesano, mangiare insieme, ma in silenzio e poi a letto presto…la mattina dopo ci sarebbero stati sempre salmoni da pescare, legna da tagliare, pelli da conciare per fabbricare abiti e coperte.
A Kástegor si viveva così.
Nikla era una bambina che non amava andare a scuola. Era sempre la stessa solfa: come difendersi dal freddo, come difendersi dai barbari, come difendersi dagli animali feroci, come difendersi dalla noia e dalle dita ossute delle ombre che si allungavano su strade, tetti e rami e ghiacciavano tutto, cuori compresi.
Davvero una gran noia tutto quel difendersi.
Quella mattina, intabarrata in un poncho di lana, incuffiata in un colbacco di pelle di gnu e sotto il solito cielo color petrolio, faceva correre la sua slitta verso la scuola con l’indolenza di chi avrebbe preferito fare tutt’altro.
Nikla si fermò davanti alla vetrina impolverata del vecchio Grokkor.
Grokkor era l’unico straniero di Kástegor. Era arrivato al villaggio tanti anni prima, lo avevano trovato, mezzo assiderato, sul bordo del lago ghiacciato, orfano dei suoi compagni di spedizione, che avevano avuto la stupida idea di penetrare nella nera foresta di abeti millenari per scalare il grande Sasso. E il grande Sasso li aveva puniti tutti e stava per castigare anche lui se non fosse stato per Anika che lo aveva portato in casa, aveva spostato un letto vicino alla stufa e, per mesi, aveva avuto la pazienza di curarlo e nutrirlo. Erano altri tempi.
I due si erano sposati e lui si era aperto quel buco, una specie di robivecchi stipato di carabattole polverose. All’inizio aveva provato a fabbricare e vendere oggetti provenienti dal mondo da cui veniva ma, siccome non interessavano a nessuno, per mantenersi si era messo ad aggiustare asce, reti, utensili vari. Ma ora era vecchio, Anika era stata risucchiata dal grande spirito e lui se ne stava in negozio soprattutto perché, piccolo e stipato di ciarpame com’era, risultava molto più caldo della casa senza Anika. 
Alla piccola Nikla invece, nonostante tutte le raccomandazioni con le quali a casa le riempivano la testa, quegli oggetti provenienti da un mondo sconosciuto la incuriosivano. Specialmente quella specie di casetta con una sola porta e decine di finestrelle con minuscole persiane.
La campanella sopra la porta a vetri segnalò il suo ingresso, il vecchio Grokkor la sbirciava dal retrobottega…”Finalmente ha avuto il coraggio di entrare”, pensò.
Quel piccolo passo dentro una vecchia bottega polverosa, avrebbe segnato per sempre la sua vita e quella del suo villaggio.

“Niente scuola stamattina?”, chiese il vecchio, scostando la tenda di ghiande che fece un tintinnio legnoso. “È chiusa, si è rotto il riscaldamento”, balbettò Nikla. Il vecchio sorrise dietro gli occhiali che teneva sulla punta del naso e dietro quei baffi da tricheco rossi e folti. Nikla girava in tondo, toccava ora questo, ora quell’oggetto, senza avere il coraggio di avvicinarsi a quello che le interessava davvero. Fu il vecchio Grokkor allora a prendere in mano la casetta e a spolverarla come se fosse un’operazione necessaria. “Che cos’è”? Si avvicinò Nikla immediatamente. “Da dove vengo io, si chiama calendario dell’avvento, è un regalo per bambini.” “Che cos’è un regalo?”, chiese Nikla. “È un gesto che, quando c’è una festa, si fa per dire a qualcuno che gli si vuole bene.” “Che cos’è una festa?”, chiese pedante Nikla. “Una festa è un giorno in cui c’è più luce dei giorni normali e questo oggetto segna una specie di percorso, l’avvicinamento al giorno in cui la luce vince sul buio.” Nikla rimase zitta un attimo. Ma poi ripartì. “Che cos’è la luce?” Il vecchio rimuginò qualche istante, non era una domanda facile. Mise l’acqua sul fuoco. “Vedi cosa fa il fuoco? Ecco, la luce è questo, è qualcosa che ti fa vedere tante cose…”, rimase con la frase in sospeso, mentre la bambina ascoltava a bocca aperta. Gli mancava qualcosa, una specie di significato metaforico, diciamo. “Ed è anche una cosa che ti permette di capire. Ecco. Vedere tante cose e capire tante cose.” “Io voglio vedere tante cose e capire tante cose!”, disse Nikla mettendosi a saltellare all’improvviso. “Calma, calma”, ridacchiò il vecchio Grokkor. Ora beviamo il Klup. Versò l’acqua calda, la lasciò in infusione in una specie di segatura di corteccia e poi versò due tazze di klup, una bevanda nerastra al sapore di pino. Nikla beveva in silenzio ma si vedeva che friggeva, si era seduta ma continuava a muovere i piedi che non toccavano il pavimento. “Cosa c’è Nikla?”, chiese il vecchio. “Se quel carlevario dell’aumento…” “Calendario dell’avvento…”, corresse il vecchio. “Se quel calendario dell’avvento è una mappa verso la luce, vorrei comprarlo. Non ho soldi ora, ma me li posso guadagnare, te lo pagherò.” “Non servono soldi, serve coraggio.”, disse il vecchio. “Io sono coraggiosa!”, sbottò Nikla saltando giù dalla sedia. Il vecchio finì con calma il suo klup, poi avvolse la casetta in una carta grezza marrone chiaro e allungò l’involto a Nikla. “È tuo, te lo regalo. In bocca al lupo piccola coraggiosa Nikla.”
Una scintilla si accese nel cielo per un solo attimo. Per la prima volta dalla nascita del mondo una stella brillò su Kastegor ma nessuno la vide.

Nikla, secondo le indicazioni del vecchio Grokkor, aprì la prima finestrella e dentro c’era un soldo di cioccolato grande come una moneta da 2 Slopi, avvolto in una pellicola color alluminio. All’interno della pellicola era disegnata una specie di cornice che, alla flebile luce della candela, restituiva il riflesso del volto di Nikla. “Ciao, chi sei?”, recitava una piccola scritta sotto la cornice. Nikla mise la moneta di cioccolato sotto la lingua e la fece sciogliere piano piano. Poi andò a letto. Quella notte non sentì i gorghi del grande fiume, non si svegliò, nè ebbe incubi, anzi sognò sé stessa che, con una borraccia a tracolla e un piccolo machete, fendeva le liane di una foresta sconosciuta. Nel sogno la sua camicia era intrisa di sudore e tutto intorno a lei volavano pappagalli e uccelli multicolori, le foglie erano verdissime e, non ci avrebbe giurato ma, al di là, della foresta le sembrava di sentire il rumore di una sconfinata distesa d’acqua tiepida. Si svegliò confusa ma con uno strano fuoco dentro. Come aveva potuto immaginare un posto del genere quando, un posto del genere, evidentemente non esisteva? E perché quella frase le continuava a rimbombare in testa come una nenia che non riusciva a scacciare? “Ciao, chi sei?”, “Ciao, chi sei?”. Dopo scuola non tornò subito a casa, restò qualche istante a guardare il grande fiume, da lì si spostò sulle rive del lago, dove Grokkor era stato trovato. Pensò a quegli uomini. Per la prima volta non pensò a loro come ad un gruppo di giovani stupidi ed avventati ma come ad un manipolo di uomini che avevano avuto vite…affascinanti. Certo, finite presto e non benissimo. Alzò il naso arrossato dal vento verso il grande sasso. Quasi non si vedeva nascosto in mezzo alle nuvole grigie. Quella sera aprì la seconda finestrella, questa volta trovò una pallina di caramello, avvolta in una carta color rame. La dispiegò e all’interno era disegnata una galleria. Quella notte Nikla sognò di attraversarla. La sera ancora successiva la terza finestrella le regalò un lecca-lecca avvolto in una carta a righe all’interno della quale era disegnato un ponte instabile. Quella notte Nikla sognò di trovarsi nel mezzo del ponte senza avere paura dell’altezza. Alla fine della settimana dietro l’ultima finestrella del primo piano della casetta di legno, trovò un bastoncino di zucchero, della stessa forma di quelli che gli abitanti di Kastegor avevano rinvenuto negli equipaggiamenti perduti della spedizione che aveva osato sfidare il grande Sasso. Quella notte Nikla non riuscì a chiudere occhio.
“Ciao, chi sei?”, “ciao, chi sei?”, “Ciao, chi sei?”. Il rumore della nenia copriva il frastuono del fiume. Le ore passavano e lei non prendeva sonno. Se ne stava immobile, appoggiata alla testiera del letto a fissare il buio di fronte a sé. Le gambe le si muovevano galvanizzate da un’elettricità che non riusciva a riconoscere. “Sono un’esploratrice”, disse che era quasi l’alba. Una scossa la fece saltare in piedi, la nenia si placò, le cadde lo sguardo sullo zaino. Aveva paura. Ma non una paura brutta, quella delle bestie feroci, dei draghi, dei mulinelli. Una paura che la faceva trillare di slancio, di voglia, che le muoveva i piedi. Riempì lo zaino. Poi lo svuotò. Si rimise a letto. Saltò ancora giù, rifece lo zaino. Poi tentennò, prese la cartella per la scuola. Poi la posò. Guardò fuori dalla finestra, la parete della montagna, ascoltò il noto fragore del fiume. Infilò il calendario dell’avvento nello zaino. Lo chiuse. Fece pianissimo, se qualcuno si fosse svegliato, se qualcuno l’avesse interrogata, forse avrebbe desistito. Uscì nell’ora più buia della notte, un buio denso e opprimente che non le permetteva di vedersi neppure le punte degli stivali. Era facile tuttavia proseguire per il fiume, bastava seguirne il rumore. Si trovò sull’argine che le prime candele del paese si accendevano. Guardò le pietre, gli anfratti e le rapide. Conosceva tutte le insidie, ma aveva detto a sé stessa di essere un’esploratrice.

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