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Le streghe di Triora

11/29/2021

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Un sacchetto di grano per fare un po’ di pane.
È quello che cercano tutti a Triora, sul finire dell’estate del 1587. La stagione fredda è alle porte e le credenze sono vuote.
Strano per quel pezzo di Liguria che tutti chiamano “Il granaio della repubblica”. Probabilmente un gruppo di possidenti sta trattenendo le derrate per far alzare i prezzi ma non è questa la ragione della carestia che inizia a diffondersi per i vicoli stretti di quel borgo incastrato sull’aspro appennino di ponente.
Quelle donne che vivono alla Cabotina, fuori dalla fortificazione, a strapiombo sulla valle, la notte si sentono voci, si vedono fuochi, fuggono gli uccelli, restano solo le bestie che strisciano. Loro battezzano i bambini nati morti, loro li seppelliscono sotto sagrato di San Bernardino, loro conoscono le magie delle erbe medicinali. Sono streghe, la colpa della miseria è loro.
Così inizia uno dei processi alle streghe in Italia, per nulla distante, in quanto a ferocia e drammaticità a quelli di Loudun o di Salem.
Il consiglio degli anziani stanzia 500 scudi per il processo, giungono da Genova e da Albenga i vicari dell’inquisitore, la popolazione si raduna in chiesa, qui le persone vengono invitate alla delazione. Vecchi rancori, paura, ignoranza, cattiveria fanno sì che in poco tempo la situazione sfugga completamente di mano.
Giulio Scribani, già pretore a San Romolo, arriva in paese con l’intenzione di “smorbar di quella diabolica setta questo paese che resta quasi per tal conto tutto desolato”.
Fra le tante vittime, pochi nomi sono passati alla storia. Uno di questi suona dolce: Franchetta. Franchetta Borelli.
Nobile, bella, ricca, non sposata, prostituta in gioventù.
Fu torturata una prima volta a cavalletto, ma la parola di suo fratello Quilico e 1000 scudi di cauzione le fecero concedere gli arresti domiciliari.
Scappò ma poi decise di ripresentarsi al processo per evitare che un suo amico, Buzzacarino, che aveva garantito per lei, finisse in prigione.
In molte ore di supplizio sugli atti vengono annotati momenti di sconforto, di silenzio, pensieri innocenti, rivolti al suo paese e alle persone a cui voleva bene. Sappiamo che si offrì di riparare le scarpe rotte di un suo parente che la assisteva e si preoccupò delle castagne che non sarebbero maturate con quel vento freddo che sentiva soffiare fuori dalla sua cella.
Dagli atti emerge anche una frase che ti fa sentire un freddo spaventoso: “Io stringo i denti e poi diranno che rido”.
Nella chiesa romanica di S. Bernardino è visibile ancora oggi un Giudizio Universale con tanto di streghe ed eretici fatti a pezzi e bambini, morti senza ricevere il battesimo, affrescati sotto le enormi ali da pipistrello di un demone. Il nome stesso di Triora deriverebbe dal latino “tria ora”, cioè “tre bocche”, esattamente come le tre bocche di cerbero, la bestia immonda che controlla le porte dell’inferno.
Che non sta a Triora però, che è un bellissimo borgo medievale che affaccia su una valle splendida e che, tra l’altro, nella notte di Halloween organizza una splendida festa.
L’inferno non sta nelle streghe che abitano solo l’ignoranza e la paura della gente.
L’inferno sta qui, tutte le volte che gli uomini decidono di costruirlo e alimentarlo.
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