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Il calendario di Nikla

12/2/2021

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Foto

Kástegor era un villaggio nascosto in mezzo alle enormi conifere dei boschi del nord.
Oltre la grande foresta una montagna appuntita con sulla sommità, una specie di enorme sfera, che i vecchi chiamavano “Il grande sasso”, arrivava a bucare le nuvole e, per tutto l’anno, impediva ai raggi del sole di illuminare quella manciata di case di legno ingrigito dal gelo.
Dalla parte opposta scorreva invece il grande fiume, un impetuoso canalone che veniva giù violento dalle cascate e formava sotto il pelo dell’acqua un fitto intreccio di rapide, mulinelli e gorghi spaventosi il cui risucchio generava un rumore sordo che, soprattutto durante le notti, svegliava i bambini o faceva loro sognare draghi e antri infernali.
A Kástegor non si conoscevano giorni di festa.
A nessuno era mai venuto in mente che ci fosse qualcosa da celebrare, i giorni scorrevano uguali, il freddo non faceva crescere il grano o iniziare la primavera, il buio era ininterrotto e il vento scuoteva gli alberi e sputava neve ogni giorno e ogni notte che, a dire la verità, erano quasi uguali. Perciò nulla segnava un primo e un dopo, un momento particolare, una ricorrenza. Nessuno aveva mai avuto la fantasia di festeggiare.
Al massimo, quando ci si sentiva abbastanza intraprendenti, si poteva uscire di casa e visitare qualche paesano, mangiare insieme, ma in silenzio e poi a letto presto…la mattina dopo ci sarebbero stati sempre salmoni da pescare, legna da tagliare, pelli da conciare per fabbricare abiti e coperte.
A Kástegor si viveva così.
Nikla era una bambina che non amava andare a scuola. Era sempre la stessa solfa: come difendersi dal freddo, come difendersi dai barbari, come difendersi dagli animali feroci, come difendersi dalla noia e dalle dita ossute delle ombre che si allungavano su strade, tetti e rami e ghiacciavano tutto, cuori compresi.
Davvero una gran noia tutto quel difendersi.
Quella mattina, intabarrata in un poncho di lana, incuffiata in un colbacco di pelle di gnu e sotto il solito cielo color petrolio, faceva correre la sua slitta verso la scuola con l’indolenza di chi avrebbe preferito fare tutt’altro.
Nikla si fermò davanti alla vetrina impolverata del vecchio Grokkor.
Grokkor era l’unico straniero di Kástegor. Era arrivato al villaggio tanti anni prima, lo avevano trovato, mezzo assiderato, sul bordo del lago ghiacciato, orfano dei suoi compagni di spedizione, che avevano avuto la stupida idea di penetrare nella nera foresta di abeti millenari per scalare il grande Sasso. E il grande Sasso li aveva puniti tutti e stava per castigare anche lui se non fosse stato per Anika che lo aveva portato in casa, aveva spostato un letto vicino alla stufa e, per mesi, aveva avuto la pazienza di curarlo e nutrirlo. Erano altri tempi.
I due si erano sposati e lui si era aperto quel buco, una specie di robivecchi stipato di carabattole polverose. All’inizio aveva provato a fabbricare e vendere oggetti provenienti dal mondo da cui veniva ma, siccome non interessavano a nessuno, per mantenersi si era messo ad aggiustare asce, reti, utensili vari. Ma ora era vecchio, Anika era stata risucchiata dal grande spirito e lui se ne stava in negozio soprattutto perché, piccolo e stipato di ciarpame com’era, risultava molto più caldo della casa senza Anika. 
Alla piccola Nikla invece, nonostante tutte le raccomandazioni con le quali a casa le riempivano la testa, quegli oggetti provenienti da un mondo sconosciuto la incuriosivano. Specialmente quella specie di casetta con una sola porta e decine di finestrelle con minuscole persiane.
La campanella sopra la porta a vetri segnalò il suo ingresso, il vecchio Grokkor la sbirciava dal retrobottega…”Finalmente ha avuto il coraggio di entrare”, pensò.
Quel piccolo passo dentro una vecchia bottega polverosa, avrebbe segnato per sempre la sua vita e quella del suo villaggio.

“Niente scuola stamattina?”, chiese il vecchio, scostando la tenda di ghiande che fece un tintinnio legnoso. “È chiusa, si è rotto il riscaldamento”, balbettò Nikla. Il vecchio sorrise dietro gli occhiali che teneva sulla punta del naso e dietro quei baffi da tricheco rossi e folti. Nikla girava in tondo, toccava ora questo, ora quell’oggetto, senza avere il coraggio di avvicinarsi a quello che le interessava davvero. Fu il vecchio Grokkor allora a prendere in mano la casetta e a spolverarla come se fosse un’operazione necessaria. “Che cos’è”? Si avvicinò Nikla immediatamente. “Da dove vengo io, si chiama calendario dell’avvento, è un regalo per bambini.” “Che cos’è un regalo?”, chiese Nikla. “È un gesto che, quando c’è una festa, si fa per dire a qualcuno che gli si vuole bene.” “Che cos’è una festa?”, chiese pedante Nikla. “Una festa è un giorno in cui c’è più luce dei giorni normali e questo oggetto segna una specie di percorso, l’avvicinamento al giorno in cui la luce vince sul buio.” Nikla rimase zitta un attimo. Ma poi ripartì. “Che cos’è la luce?” Il vecchio rimuginò qualche istante, non era una domanda facile. Mise l’acqua sul fuoco. “Vedi cosa fa il fuoco? Ecco, la luce è questo, è qualcosa che ti fa vedere tante cose…”, rimase con la frase in sospeso, mentre la bambina ascoltava a bocca aperta. Gli mancava qualcosa, una specie di significato metaforico, diciamo. “Ed è anche una cosa che ti permette di capire. Ecco. Vedere tante cose e capire tante cose.” “Io voglio vedere tante cose e capire tante cose!”, disse Nikla mettendosi a saltellare all’improvviso. “Calma, calma”, ridacchiò il vecchio Grokkor. Ora beviamo il Klup. Versò l’acqua calda, la lasciò in infusione in una specie di segatura di corteccia e poi versò due tazze di klup, una bevanda nerastra al sapore di pino. Nikla beveva in silenzio ma si vedeva che friggeva, si era seduta ma continuava a muovere i piedi che non toccavano il pavimento. “Cosa c’è Nikla?”, chiese il vecchio. “Se quel carlevario dell’aumento…” “Calendario dell’avvento…”, corresse il vecchio. “Se quel calendario dell’avvento è una mappa verso la luce, vorrei comprarlo. Non ho soldi ora, ma me li posso guadagnare, te lo pagherò.” “Non servono soldi, serve coraggio.”, disse il vecchio. “Io sono coraggiosa!”, sbottò Nikla saltando giù dalla sedia. Il vecchio finì con calma il suo klup, poi avvolse la casetta in una carta grezza marrone chiaro e allungò l’involto a Nikla. “È tuo, te lo regalo. In bocca al lupo piccola coraggiosa Nikla.”
Una scintilla si accese nel cielo per un solo attimo. Per la prima volta dalla nascita del mondo una stella brillò su Kastegor ma nessuno la vide.

Nikla, secondo le indicazioni del vecchio Grokkor, aprì la prima finestrella e dentro c’era un soldo di cioccolato grande come una moneta da 2 Slopi, avvolto in una pellicola color alluminio. All’interno della pellicola era disegnata una specie di cornice che, alla flebile luce della candela, restituiva il riflesso del volto di Nikla. “Ciao, chi sei?”, recitava una piccola scritta sotto la cornice. Nikla mise la moneta di cioccolato sotto la lingua e la fece sciogliere piano piano. Poi andò a letto. Quella notte non sentì i gorghi del grande fiume, non si svegliò, nè ebbe incubi, anzi sognò sé stessa che, con una borraccia a tracolla e un piccolo machete, fendeva le liane di una foresta sconosciuta. Nel sogno la sua camicia era intrisa di sudore e tutto intorno a lei volavano pappagalli e uccelli multicolori, le foglie erano verdissime e, non ci avrebbe giurato ma, al di là, della foresta le sembrava di sentire il rumore di una sconfinata distesa d’acqua tiepida. Si svegliò confusa ma con uno strano fuoco dentro. Come aveva potuto immaginare un posto del genere quando, un posto del genere, evidentemente non esisteva? E perché quella frase le continuava a rimbombare in testa come una nenia che non riusciva a scacciare? “Ciao, chi sei?”, “Ciao, chi sei?”. Dopo scuola non tornò subito a casa, restò qualche istante a guardare il grande fiume, da lì si spostò sulle rive del lago, dove Grokkor era stato trovato. Pensò a quegli uomini. Per la prima volta non pensò a loro come ad un gruppo di giovani stupidi ed avventati ma come ad un manipolo di uomini che avevano avuto vite…affascinanti. Certo, finite presto e non benissimo. Alzò il naso arrossato dal vento verso il grande sasso. Quasi non si vedeva nascosto in mezzo alle nuvole grigie. Quella sera aprì la seconda finestrella, questa volta trovò una pallina di caramello, avvolta in una carta color rame. La dispiegò e all’interno era disegnata una galleria. Quella notte Nikla sognò di attraversarla. La sera ancora successiva la terza finestrella le regalò un lecca-lecca avvolto in una carta a righe all’interno della quale era disegnato un ponte instabile. Quella notte Nikla sognò di trovarsi nel mezzo del ponte senza avere paura dell’altezza. Alla fine della settimana dietro l’ultima finestrella del primo piano della casetta di legno, trovò un bastoncino di zucchero, della stessa forma di quelli che gli abitanti di Kastegor avevano rinvenuto negli equipaggiamenti perduti della spedizione che aveva osato sfidare il grande Sasso. Quella notte Nikla non riuscì a chiudere occhio.
“Ciao, chi sei?”, “ciao, chi sei?”, “Ciao, chi sei?”. Il rumore della nenia copriva il frastuono del fiume. Le ore passavano e lei non prendeva sonno. Se ne stava immobile, appoggiata alla testiera del letto a fissare il buio di fronte a sé. Le gambe le si muovevano galvanizzate da un’elettricità che non riusciva a riconoscere. “Sono un’esploratrice”, disse che era quasi l’alba. Una scossa la fece saltare in piedi, la nenia si placò, le cadde lo sguardo sullo zaino. Aveva paura. Ma non una paura brutta, quella delle bestie feroci, dei draghi, dei mulinelli. Una paura che la faceva trillare di slancio, di voglia, che le muoveva i piedi. Riempì lo zaino. Poi lo svuotò. Si rimise a letto. Saltò ancora giù, rifece lo zaino. Poi tentennò, prese la cartella per la scuola. Poi la posò. Guardò fuori dalla finestra, la parete della montagna, ascoltò il noto fragore del fiume. Infilò il calendario dell’avvento nello zaino. Lo chiuse. Fece pianissimo, se qualcuno si fosse svegliato, se qualcuno l’avesse interrogata, forse avrebbe desistito. Uscì nell’ora più buia della notte, un buio denso e opprimente che non le permetteva di vedersi neppure le punte degli stivali. Era facile tuttavia proseguire per il fiume, bastava seguirne il rumore. Si trovò sull’argine che le prime candele del paese si accendevano. Guardò le pietre, gli anfratti e le rapide. Conosceva tutte le insidie, ma aveva detto a sé stessa di essere un’esploratrice.

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