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Ana Maria Santi e gli ultimi Zàpara

8/17/2022

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Una volta un minga era una festa, oggi per Ana María Santi è un’occasione molto triste.
Lei ha visto il passato e, per una che ha visto il passato, questo presente non può che mettere tristezza. Siamo a Mazáraka, un piccolo villaggio sul Rio Conambo, un affluente del Rio delle Amazzoni.
Lei ha gli occhi grigi, le mani nodose, i capelli nerissimi nonostante i suoi 70 anni che la condannano a ricordare quando le scimmie ragno erano sacre e come le scimmie, anche loro, gli zàpara, vivevano sugli alberi, legando insieme i tronchi delle palme con liane di bejuco per sostenere i tetti di foglie.
Le sue nipoti, con fili d’erba intrecciati fra i capelli, le offrivano una tazza di chicha, un’acida e lattiginosa birra di polpa di manioca fermentata con la saliva delle donne che la masticano per giorni. Lei la rifiutava in una lingua mista fra Quichua e Zàpara, che quasi non si parlava più. Ricordava quando si mangiava soprattutto polpa di palma e tapiri, pecari, colini e craci.
Poi, dall’altra parte del mondo, era successa quella cosa di Henry Ford che scoprì come produrre automobili in serie. All’improvviso serviva un sacco di gomma per copertoni e camere d’aria.
In Ecuador gli indi Quichua delle colline, già evangelizzati dai missionari spagnoli, furono ben contenti di aiutare i nuovi venuti a stanare quei barbari delle pianure, gli Zàpara appunto, incatenarli agli alberi affinché lavorassero fino allo stremo, schiavizzare le loro donne affinché partorissero nuovi schiavi da lavoro.
Quando, negli anni ’20, le piantagioni del sudest asiatico avevano ormai mandato in malora il mercato della gomma sudamericano, si pensava che il popolo degli Zàpara non esistesse più, fosse estinto.
Nel 1999 però, a seguito della risoluzione di una disputa di confine fra Ecuador e Perù, uno sciamano peruviano fu trovato a camminare nella foresta ecuadoriana. Tornava a cercare i parenti. Era uno zàpara. Esistevano ancora.
Fu loro restituita una piccola parte della loro terra ancestrale, L’UNESCO stanziò del denaro per rianimare la loro cultura e salvarne la lingua. La parlavano in quattro, ormai.
Anche loro avevano imparato dagli occupanti ad abbattere alberi millenari per creare appezzamenti di manioca che ora era la loro principale fonte di sostentamento, la consumavano per tutto il giorno, sotto forma di chicha.
Erano sempre ubriachi gli Zàpara sopravvissuti, bambini compresi.
Anche quel giorno di festa, anche durante quella minga, una festa campestre per la costruzione di un granaio.
D’altra parte, se ti risvegli, dopo una quasi estinzione, in un mondo che non è più il tuo, come fai a rimanere in piedi se non ti stordisci un po’? Gli zàpara stanno seduti uno addosso all’altro, piedi nudi e volto dipinto, in cerchio.
Le nipoti di Ana Maria Santi passano servendo piatti di pesce gatto stufato e agli anziani e agli ospiti offrono anche una carne bollita scura come il cioccolato fondente.
Ora che, senza foresta vergine, la selvaggina è sempre più rara, gli zàpara si sono trovati costretti a cacciare le scimmie ragno.
Le ragazze ne offrono un piatto anche ad Ana Maria Santi che le rimprovera con la voce stanca: “Quando ci riduciamo a mangiare i nostri antenati, che cosa ci resta?”
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