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Puškin e Arina Rodionovna

11/14/2022

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Puskin per i russi è più di quello che Dante è per gli italiani. È una cosa che quando i russi leggono i suoi versi si commuovono.
È vero che in Russia la poesia è una cosa talmente seria che in molti pensano influenzi la realtà. O almeno era così, adesso chissà. C’è stato però un tempo in cui i giovani si riunivano per leggere i passi dei loro libri preferiti e questa roba era cool.
La poesia cool è difficile da pensare oggi, che peccato.
Comunque Puskin è il padre di tutti perché ha regalato alla Russia una letteratura sua che prima non c’era.
I libri si leggevano in francese e i colti scrivevano in francese e il russo non aveva manco le parole per dire cose che non fossero quotidiane, non ce le aveva, almeno da quando Cirillo e Metodio si sono inventati i caratteri. I russi insomma, se si trattava di scienza o politica o filosofia, pensavano proprio in francese.
Poi è successo che l’autunno del 1824 Puskin lo passa a Michajlovskoe, dove la famiglia aveva una tenuta, poco lontano da Pskov.
E qui passa molto tempo in compagnia di Arina Rodionovna, che era stata la sua njanja, cioè la sua nutrice. Era frequente allora che con le balie, che erano serve della gleba, si mantenessero poi rapporti anche in età adulta.
Beh, lì a Pskov succede che Arina, analfabeta, che mai ha preso in mano un libro in vita sua, a Puskin racconta di nuovo le favole che gli raccontava da bambino delle quali gli rimanevano solo frammenti, ricordi confusi, pezzetti.
E Puskin, già 25enne, quando la sera ascolta la sua Njaja richiamare alla memoria quelle storie e soprattutto farlo con quella lingua bellissima, che non è quella dei libri, è quella della terra e della strada, rimane incantato.
C’è una potenza dentro le parole che brucia come il fuoco e ghiaccia come il gelo della steppa.
E allora Aleksandr Sergeevič Puškin pensa che, con quelle parole, bisogna raccontare le storie che, quelle parole sono martelli e chiodi giusti per costruire una storia che stia in piedi e sia solida e violenta e intensa. Che con quella lingua si può fare ridere, piangere e tacere.
Così Puskin ha riorganizzato una lingua e creato una letteratura che prima non c’era e adesso è considerata una delle più belle del mondo ed è un gran peccato non sapere il russo perché tutti dicono che, essendo un poeta, per quanto sia bella la traduzione, si sfarina l’incanto delle sue parole, che, alla fine, a ben guardare, erano le parole di una contadina analfabeta che si chiamava Arina Rodionovna.
Oggi a Pskov, in mezzo ad un parco, c’è una statua che raffigura il grande poeta e, seduta accanto a lui, con gli stivali e un tabarro scuro, c’è la sua njanja.
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