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Piccole cose da nulla

12/15/2022

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Il Natale è un simbolo. È la luce che vince sul buio. Si sa.
Ma passare dalla metafora celeste alle piccole cose da nulla di ogni giorno è difficile.
Come si fa a far vincere la luce sul buio, quando il buio fa davvero paura?
Furlong vive in Irlanda, figlio di una ragazzina sedicenne, cresce grazie alla misericordia della signora Wilson che, invece di metterli alla porta, se li è tenuti in casa e ha evitato ad entrambi guai ben peggiori.
Ora è cresciuto, ha messo su una bella attività, vende legna e sacchi di carbone ad un bel pezzo di contea, e ha costruito una bella famiglia, Eileen, sua moglie, e cinque belle figlie che andranno al st Margaret e faranno strada.
Quando ormai il presepe in piazza è già montato e pure l’albero scintilla e pure le luminarie splendono, il suo camion arranca su per la collina per una consegna al convento. È domenica, ma tanto vale togliersi quell’incombenza.
È un posto misterioso il convento, c’è la scuola, e fin qui tutti d’accordo, c’è la lavanderia che consegna lenzuola e abiti profumati e come nuovi, e anche di questo si può parlare, ma poi c’è un non meglio specificato “istituto correzionale” per ragazze. E qui è meglio non approfondire troppo, anche perché uno che proprio conosca le risposte, pare non ci sia.
Quando Furlong arriva, apre la porta della carbonaia e dentro ci trova una ragazza tutta storta, tremante, un po’ di freddo e un po’ di paura, con i capelli tagliati maldestramente, i piedi neri e una vestaglia logora e lercia.
Lei gli chiede di suo figlio. Se sa dov’è, se può aiutarla.
Furlong è confuso, bussa al convento, gli apre una suora che non lo aspettava e che sembra irrigidirsi quando vede la ragazza.
Ecco dov’era, l’hanno cercata tutta la notte, dice, venga, dice a Furlong, una tazza di the, un pezzo di dolce, eravamo preoccupate, dice, hai bisogno di una bella dormita, ripete. C’è qualcosa che però non convince Furlong, che però non chiede, tace, consegna la merce, intasca la busta con gli auguri e 50 sterline extra. Torna a casa.
Però ci pensa nei giorni successivi. Pensa che non si sente bene a non aver chiesto. Accenna la cosa a sua moglie che gli dice che è troppo buono, di non farsi coinvolgere, che di problemi ne hanno già tanti, a cominciare dagli infissi che sono anni che devono cambiare, che a passar vicino alle finestre filtrano certe spade di gelo che sembrano affettarti le orecchie.
Accenna qualcosa in giro allora Furlong, ma quasi tutti nicchiano, allargano le braccia, scuotono il capo. La signora Kehoe è anche più esplicita. Non le risulta che esistano ragazze che, della loro vita, abbiano fatto qualcosa di buono senza passare dalla st Margaret. E le sue figlie sono ad un passo. Vale la pena avere qualcosa da dire con quella gente lì? Che pensi a godersi il Natale.
Ma Furlong più ci pensa e meno bene sta. Sente come un buio che gli riempie lo stomaco.
Quindi torna su per la collina, qualche giorno dopo. Questa volta ci va a piedi, quasi senza deciderlo. La strada si fa via via più buia, i lampioni diventano sempre più radi ma lui continua a camminare in preda ad una strana eccitazione.
Dentro di sé spera. Che il lucchetto sia chiuso. Che, aprendo la carbonaia, la trovi vuota. Che la suora lo intercetti prima che si avvicini. Ma non succede nulla di tutto questo.
Percorre un tratto delle mura del convento, arriva di fronte alla porta della carbonaia. La apre. E dentro c’è ancora la ragazza, nelle stesse condizioni. L’unica differenza è che ora accetta il cappotto di Farlong senza indietreggiare.
Lui la porta giù con sé e si sente bene. Anche se sa che il peggio deve ancora arrivare.
Le persone che lo vedono da lontano gli si avvicinano ma appena si rendono conto che, sotto braccio, non ha una delle sue figlie, si spaventano e cambiano marciapiede. Lui si sente bene anche se sa che ci saranno conseguenze.
I bambini ridacchiano dei piedi neri e di quei capelli ridicoli prima che i genitori li tirino via sempre un secondo più tardi del necessario. Farlong però si sente bene perché ciò che intimamente è giusto basta a sé stesso e anche se, lì per lì, può sembrare una piccola cosa da nulla, le piccole cose da nulla, messe in fila, fanno sì che la luce vinca sul buio, come nel cielo succede a Natale.
 
L’ultima Magdalene Laundry è stata chiusa in Irlanda nel 1996.
In questi istituti molte ragazze “sfortunate” venivano nascoste, incarcerate e costrette a lavorare. Molte di queste ragazze hanno perso i loro bambini o la loro stessa vita. La gran parte degli atti ufficiali di queste lavanderie finanziate e gestite dalla chiesa cattolica sono andati perduti. Il governo irlandese, nella persona del primo ministro Enda Kenny, si è ufficialmente scusato nel 2013.
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Elf on the shelf

12/15/2022

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Io sono un appassionato di leggende.
Secondo me, dentro le leggende, nella mitologia, ci sono un sacco di indicazioni, suggerimenti, segreti di quel che siamo stati, di quel che siamo e di quel che in noi è eterno e quindi, sempre ci sarà.
Le leggende spesso affondano le loro radici in tempi remotissimi, dimenticati, nebbiosi, impossibili da datare e da delineare con chiarezza.
Delle leggende più affascinanti mi so no sempre chiesto: chissà quando questa storia è stata raccontata per la prima volta? Da chi e perché? Chissà attraverso quali peripezie è arrivata fino a noi?
Beh, ce n’è una appena nata, che sembra proprio fatta per durare ma della quale sappiamo tutto.
Nel 2005 due sorelle gemelle, le sorelle Bell, e la loro madre, Carol Aebersold fanno uscire un libro: elf on the sheld a xmas tradition.
Sostanzialmente, dopo il giorno del Ringraziamento, per noi europei facciamo dal primo dicembre, si può costruire una porticina di legno su una mensola della propria casa.
Le mini-porticine, come è noto, hanno poteri magici e questa in particolare, è in grado di creare un corridoio espresso fra casa vostra e il laboratorio di Babbo Natale.
Una volta creato questo gate, un elfo si mette in marcia e, presto o tardi, a seconda del traffico, arriva a casa vostra.
Il suo compito è da vero agente segreto: si occupa di monitorare i bambini per poi riferire al principale in Lapponia, che se non fosse chiaro, è Santa Claus, se i pargoli meritano o meno i regali che hanno richiesto nella letterina.
Detto così sembra un compito da spione antipatico ma, a dar retta a quel che si dice in giro, gli elfi sono estremamente clementi, anche perché, sempre secondo tradizione, nei giorni in cui frequenteranno la vostra casa, non faranno meno casini di quanti ne facciano i vostri figli.
Quindi, anche per onestà intellettuale, non è che si possono mettere a fare gli spioni precisini.
Gli elfi ce l’hanno proprio come caratteristica quella di rovesciare la farina o nascondere il barattolo del caffè, finire le caramelle o mischiarvi i calzini nei cassetti.
Se vi da fastidio, inutile mettere la porticina di legno, ecco.
Insomma Elf on the shelf, che è un pendolare, ogni notte, torna al polo nord e fa un dettagliato report a Babbo, si beve una tazza di cioccolata, dorme un paio d’ore e poi torna a casa vostra, sulla mensola che avete voluto dedicargli.
Unica accortezza, la notte di Natale è bene sincerarsi di aver lasciato la porticina di legno aperta, altrimenti, il corridoio magico si chiude e l’elfo disgraziato non può tornare a casa e vi rimane in casa fino a ferragosto, periodo dell’anno per il quale è totalmente inadeguato.
Ricordatevelo, altrimenti, si irrita e lascia la porta aperta ai ladri.
Ovviamente quest’ultima parte me la sono inventata io, nel libro non c’è e non c’è neanche nei cartoni animati, nei giochi e nelle storie che ormai affollano l’immaginario dei bambini di tutto il mondo.
Ma le leggende sono così.
Chissà che, fra 200 anni, qualcuno intercetti la mia aggiunta e la prenda per buona, andando ad aggiungere un pezzo ad una leggenda che magari nessuno ricorderà da dove è partita.
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Il poeta che ha perso le rime

12/15/2022

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Era il primo dicembre di un anno dimenticato e il poeta ancora non trovava la rima.
Aveva scritto la poesia più bella che si fosse mai sentita su tutta l’isola.
Di nascosto, aveva fatto leggere le bozze allo stregone, raggiungendolo nella grotta. Il vecchio era tutto rincantucciato in fondo perché in quella stagione, le onde entrano dentro e bagnano pentole e stracci.
Era bastato leggerne un verso ad alta voce che il mare era tornato al suo posto e il vento aveva smesso di ululare.
Come tutte le poesie vere, scritte da poeti veri, nei giorni di luna crescente, anche questa aveva il potere di influenzare la realtà.
Tornando a casa, il poeta si sfregava le mani. Sai, il potere che gli avrebbe dato quella poesia?
I contadini gli avrebbero pagato una gabella affinché la leggesse per far piovere o splendere il sole, il falegname, il sarto, il panettiere gli avrebbero regalato mobili, abiti, ceste di pane perché leggesse la poesia davanti alle loro botteghe e le donne gravide, purché leggesse la sua poesia alle pance gonfie, lo avrebbero ricoperto d’oro. Senza contare, quello che le ragazze avrebbero concesso ad un poeta capace di scovare e mettere in fila parole così meravigliose ed utili.
Mancava però l’ultima rima, dell’ultimo verso. Cosa importante, perché una poesia, per quanto bella, per quanto potente, senza l’ultima rima dell’ultimo verso, è come un coltello senza il manico, uno strumento efficace ma che non si può maneggiare.
Ed anzi, diventa uno strumento pericoloso, perché non sai se taglierà la corda che ti lega o se ferirà il cuore che ti tiene in vita.
Tutto questo succedeva alla fine dell’estate e al primo dicembre, niente da fare, l’ultima rima dell’ultimo verso non c’era ancora e il tempo cominciava a scarseggiare.
Come sanno tutti quelli che scrivono poesie miracolose, se il lavoro non è finito entro il solstizio d’inverno, il giorno in cui la luce vince sul buio, massimo massimo per la vigilia di Natale, allora non c’è niente da fare, quella poesia diventa inservibile, tanto vale buttarla nel camino e ricominciare da capo.
Proprio davanti al camino, proprio davanti alle fiamme, proprio pensando ai suoi versi in cenere, il poeta pensò che non si poteva permettere di fallire, tutti quei privilegi già lo ingolosivano, pensò che era inutile scervellarsi per la rima perfetta, bastava una rima qualsiasi per togliersi il pensiero.
Ma anche una rima qualsiasi non gli usciva. Si era talmente stressato alla ricerca della rima perfetta che ora gli si era asciugato tutto il serbatoio delle parole.
Poco male. Il giorno successivo gli venne un’idea imprenditoriale.
Andò da un artigiano, da un contadino e da un armaiolo dicendo che, se gli avessero anticipato una certa cifra, si sarebbero accaparrati la prima lettura.
Incassata la somma richiesta, se ne andò al mercato e, camuffandosi da monaco, comprò, al banco delle rime 6 finali perfetti nuovi nuovi, ancora freschi. Per maggiore sicurezza si fece dare anche un sacchetto di assonanze sfuse appena uscite dalla macchina.
Arrivato a casa, provò ad incastrarle una ad una alla fine della sua meravigliosa poesia e, dopo un paio di ripensamenti, scelse una rima ricercata, una parola obsoleta, piena di ghirigori che lo avrebbe fatto sembrare un poeta non solo ispirato, non solo sensibile, non solo talentuoso ma pure cólto.
Quando si trattò di leggerla in pubblico, sulle prime, bambini, donne e uomini del villaggio sembrarono rapiti ma con grande disappunto di tutti, si capì ben presto che non solo la poesia non restava in mente e non lasciava nell’animo quella scia di languore che le poesie miracolose lasciano, ma che, catastrofe delle catastrofi, non faceva i miracoli.
E, come capirete, una poesia miracolosa che non fa miracoli, vale tanto come un calzino bucato o un ombrello che lascia passare la pioggia.
La realtà restava esattamente com’era prima, né migliore, né peggiore, anche se, viste le aspettative, sembrava peggiore.
La notte di Natale il poeta si trovava ancora di fronte al camino, questa volta spento però. I soldi che aveva dovuto restituire lo avevano lasciato sul lastrico e non poteva permettersi né legna, né regali, né addobbi, solo una minestra scialba di verdure bollite.
E così si sentiva lui, scialbo e scolato come una zuppa malriuscita.
Lo scrisse di getto per togliersi quel pensiero dal cuore, lo scrisse senza alcuna pretesa o aspettativa, lo scrisse sinceramente e senza ghirigori.
Gli uscirono tutte le rime e si ritrovò inaspettatamente sul quaderno di nuovo una poesia miracolosa.
Quindi la usò. Per far comparire il fuoco nel camino, le luci sull’albero, il cibo sulla tavola e gli amici sulle sedie.
Il giorno dopo, pensò, che era giusto Natale, quella stessa poesia, la avrebbe regalata a tutti.
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Claudio Tamburrini

11/14/2022

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Tra pochi giorni inizierà il mondiale in Qatar, un mondiale molto criticato per il mancato rispetto dei diritti umani del Paese ospitante, ribadita anche pochi giorni fa da Khalid Salman, ambasciatore della manifestazione, con una progressista dichiarazione sull’omosessualità.
In molti si sbracciano a dire che lo sport non dovrebbe avere a che fare con la politica, la verità è che non è così, lo sport è stato sempre politica, cosa che non migliora il giudizio, anzi lo peggiora.
Per questioni economiche, siamo e siamo stati disposti a passare sopra a schifezze di ogni tipo, purché i riflettori si accendessero e i coriandoli bianchi nevicassero in campo.
Uso questa immagine perché è stata questa l’immagine venduta al mondo del mondiale di Argentina del 1978 quando la dittatura di Videla sequestrava, torturava e faceva scomparire centinaia di ragazze e ragazzi prima e durante le imprese calcistiche di Mario Kempes.
Uso questa immagine perché dopo che in plaza de Mayo ho visto madri diventate nonne sfilare con fazzoletti bianchi sui capelli, per chiedere in silenzio e con dignità, dopo quasi 50 anni, che fine abbiano fatto i loro figli, per me il bianco è quello dei loro foulard e non quello dei coriandoli.
Circa un anno prima del mondiale, il 23 novembre del 1977, Claudio Tamburrini, il portiere del club Almagro, viene prelevato a casa dai militari e portato alla famigerata Mansiòn Serè. Claudio ha questo difetto che, oltre a giocare a pallone, gli piace pensare, studia filosofia all’università, e chi pensa non piace a qualunque dittatura, autocrazia e probabilmente, a sentir quel che si dice, neanche all’emirato di Doha.
Non si sa se un suo compagno, un certo Tano, non abbia retto alle torture delle milizie o se semplicemente gli abbiano trovato il suo nome sull’agenda, tanto poco bastava, quello che si sa è che lo tormentano per quasi 120 giorni, senza formalizzare un’accusa, senza spiegargli nulla, senza ovviamente dirgli che fine fanno i suoi compagni di prigionia che ogni tanto spariscono e non tornano più.
Il 24 marzo del 1978, Claudio, con i suoi compagni di cella, Fernandez, Carlos Garcia, Daniel Rusomano, danno vita ad una rocambolesca fuga, si calano nudi da una finestra, appesi a lenzuola strappate, lui lascia, a sberleffo, una scritta su un muro, dedicata al suo torturatore, poi corrono,
una donna da loro rifugio, li veste con abiti del marito, lui si rifugia in una cantina, vive da latitante e il 25/6/1978 vede da un televisore di calle corrientes Ubaldo Fillol alzare la coppa del mondo sotto una pioggia di coriandoli bianchi.
E forse è stato persino contento perché alla fine il calcio fa tornare bambini, lo si guarda, lo si gioca, se ne parla senza pensare al resto, perché è un gioco, è cosa da bambini che ogni tanto i grandi usano per fare schifezze.
E anche stavolta sarà così, guardaremo le partite in Qatar con gli occhi dei bambini, pure se l’Italia non c’è, pure se dietro è un gioco di politica, di soldi, di sopraffazione e di tante altre schifezze.
Oggi Claudio Tamburrini è professore di filosofia all’università di Stoccolma, dove è fuggito dopo il periodo di latitanza. È tornato in Argentina solo una volta da allora per testimoniare al processo alle giunte militari.
Ad oggi è l’unico calciatore professionista desaparecido. Uno dei pochissimi sequestrati che siano tornati.
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Puškin e Arina Rodionovna

11/14/2022

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Puskin per i russi è più di quello che Dante è per gli italiani. È una cosa che quando i russi leggono i suoi versi si commuovono.
È vero che in Russia la poesia è una cosa talmente seria che in molti pensano influenzi la realtà. O almeno era così, adesso chissà. C’è stato però un tempo in cui i giovani si riunivano per leggere i passi dei loro libri preferiti e questa roba era cool.
La poesia cool è difficile da pensare oggi, che peccato.
Comunque Puskin è il padre di tutti perché ha regalato alla Russia una letteratura sua che prima non c’era.
I libri si leggevano in francese e i colti scrivevano in francese e il russo non aveva manco le parole per dire cose che non fossero quotidiane, non ce le aveva, almeno da quando Cirillo e Metodio si sono inventati i caratteri. I russi insomma, se si trattava di scienza o politica o filosofia, pensavano proprio in francese.
Poi è successo che l’autunno del 1824 Puskin lo passa a Michajlovskoe, dove la famiglia aveva una tenuta, poco lontano da Pskov.
E qui passa molto tempo in compagnia di Arina Rodionovna, che era stata la sua njanja, cioè la sua nutrice. Era frequente allora che con le balie, che erano serve della gleba, si mantenessero poi rapporti anche in età adulta.
Beh, lì a Pskov succede che Arina, analfabeta, che mai ha preso in mano un libro in vita sua, a Puskin racconta di nuovo le favole che gli raccontava da bambino delle quali gli rimanevano solo frammenti, ricordi confusi, pezzetti.
E Puskin, già 25enne, quando la sera ascolta la sua Njaja richiamare alla memoria quelle storie e soprattutto farlo con quella lingua bellissima, che non è quella dei libri, è quella della terra e della strada, rimane incantato.
C’è una potenza dentro le parole che brucia come il fuoco e ghiaccia come il gelo della steppa.
E allora Aleksandr Sergeevič Puškin pensa che, con quelle parole, bisogna raccontare le storie che, quelle parole sono martelli e chiodi giusti per costruire una storia che stia in piedi e sia solida e violenta e intensa. Che con quella lingua si può fare ridere, piangere e tacere.
Così Puskin ha riorganizzato una lingua e creato una letteratura che prima non c’era e adesso è considerata una delle più belle del mondo ed è un gran peccato non sapere il russo perché tutti dicono che, essendo un poeta, per quanto sia bella la traduzione, si sfarina l’incanto delle sue parole, che, alla fine, a ben guardare, erano le parole di una contadina analfabeta che si chiamava Arina Rodionovna.
Oggi a Pskov, in mezzo ad un parco, c’è una statua che raffigura il grande poeta e, seduta accanto a lui, con gli stivali e un tabarro scuro, c’è la sua njanja.
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La profezia di Poe

11/4/2022

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Halloween ce lo siamo appena lasciati alle spalle ma una storia dell’orrore era doverosa.
E credetemi, ne ho trovata una veramente ma veramente spaventosa.
È noto a tutti che uno dei più grandi scrittori dell’orrore è stato l’americano Edgar Allan Poe, uno che, se leggi i suoi racconti, inizi pian piano a sudare e ti aumenta il battito cardiaco senza che nemmeno tu te ne accorga.
Quello che vi racconto oggi però non è il suo talento letterario, è una inquietante capacità profetica.
Nel 1838 esce “Storia di Arthur Gordon Pym”, una delle sue opere. Si tratta di una storia di mare, in parte ambientata su una barca con quattro persone a bordo.
Questa imbarcazione perde le coordinate e si trova in mezzo al mare, ha perso contatto con la costa e le scorte di cibo iniziano a scarseggiare.
I giorni passano e i protagonisti sono sempre più disperati, fino a quando arrivano al punto di decidere che uno di loro deve sacrificarsi per salvare gli altri.
Tirano a sorte e la pagliuzza più corta capita in mano ad un certo Richard Parker che letteralmente offrirà le sue carni affinché gli altri possano sopravvivere.
La trama è inquietante ma, in fondo, diremmo, si tratta di un romanzo. È fiction, non è successo davvero. È quello che si dice ai bambini spaventati prima di farli addormentare, no?
Nel 1884, a quasi 50 anni dall’uscita del libro e quando Poe è morto ormai da 35 anni, uno yacht, il Mignonette, lascia le coste inglesi diretto in Australia. A bordo ci sono 4 persone.
L’imbarcazione è troppo piccola per una traversata del genere e anche non particolarmente equipaggiata e, per di più, sfortuna vuole, che tra Sant’Elena e Tristan da Cunha, viene sorpresa da una tempesta che la sbatte di qua e di là, le onde sono alte come palazzi, la chiglia si rovescia ed in breve la Mignonette affonda.
Le quattro persone a bordo non morirono nel mezzo della tempesta ma vagarono alla deriva per diversi giorni.
Soli, disperati, senza cibo, né acqua si trovarono presto di fronte allo stesso dilemma dei protagonisti dell’Arthur Gordon Pym: sacrificare uno di loro affinché gli altri potessero sopravvivere.
Uno di loro, nei momenti più drammatici del naufragio, bevve molta acqua di mare e questo accelerò in lui il malessere causato dalla disidratazione e dalla fame.
Vedendo ormai la morte vicina, si offrì per essere cannibalizzato, sacrificò la sua carne e il suo sangue perché gli altri potessero sperare che i soccorsi li trovassero vivi.
E, fino a qui, potremmo pensare ad una serie di glaciali ma ragionevoli coincidenze, se non fosse che il nome della persona che si è offerta per essere mangiata era Richard Parker.
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Bruttiful

10/21/2022

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Si fa il governo, non si fa il governo, sono stati da Mattarella, quanto ci sono stati, le strategie, le correnti sotterranee, le caselle da riempire.
A me la politica italiana mi ingaggia. È come le telenovelas che guardava mia nonna: Dynasty, la schiava Isaura, Topazio.
Ci sono i personaggi sopra le righe: l’avversario pavido, lo zio mangione, il vecchio rincoglionito, la ragazza agguerrita, il bell’avvocato e tutta una serie di personaggi minori scritti male da sceneggiatori sfruttati che stanno facendo uno stage sottopagato.
Ti appassiona.
Ma non è che ti interessa davvero.
Ti sintonizzi sulla telenovela, sì, ma nel frattempo fai altro: ramazzi, chatti, leggi un articolo sull’anal bleaching nel mondo del porno.
Non la segui veramente perché lo sai che, a dispetto di tutto gli insulti e poi i riappacificamenti e gli sgambetti, le alleanze, i tradimenti, in realtà, non sta succedendo niente o, se qualcosa succede, accade così lentamente che tu puoi saltare un sacco di puntate e poi tornare, quando vuoi, ed è ancora tutto lì.
Ti rassicura come una fiction di RaiUno.
Puoi andare in bagno, fare una pisciata anche lunga quasi 30 anni, e tornare sul divano senza esserti perso nulla.

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Il terrore del narcisista

10/18/2022

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In giro, fra coloro che ancora, inspiegabilmente, ambiscono ad una relazione sentimentale, benché oggi, si sa, regni l’individualismo, serpeggia una grande paura.
Incontrare il narcisista patologico.
Ma che significa narcisista? Facciamoci aiutare dalla mitologia. Narcisista viene da Narciso, un giovane cacciatore bellissimo che, inebriato dalla sua stessa bellezza, nel tentativo di specchiarsi sulla superficie di un lago, scivola e annega, babbeo; di conseguenza dicesi narcisista persona babbea dedita al culto esclusivo e sterile di sé o della propria personalità.
Ma quali segni ci consentono di riconoscere un narcisista se ne incontriamo uno?
I narcisisti hanno il culto del corpo, sono terrorizzati dalla pancia o dal culone, vogliono il six pack, le chiappe da twriking, i narcisisti ordinano l’insalatona, sono pronti a grandi sacrifici per il loro aspetto, i narcisisti pensano che invecchiare sia una malattia e la combattono con creme, impacchi, pompe drenanti. I narcisisti si fanno le sopracciglia, si estirpano i peli per dimenticare le teorie darwiniane, essi sbiancano, levigano, smussano, scartavetrano.
Tutto questo sacrificio non è volto alla salute ma all’esposizione di sé. I narcisisti non possono fare a meno di esporsi per ottenere adulazione, con sbalorditiva costanza postano quotidianamente foto sui social in cui mostrano una vita lussureggiante al solo scopo di ottenere approvazione e, nella segreta speranza, di far apparire misera la vita degli altri.
I narcisisti si mostrano simpatici, avventurosi, intelligenti, sferzanti, indignati, spirituali, altruisti.
Ma è un tranello, tutto ciò rappresenta solo uno strumento per rastrellare cuoricini, commenti, direct messages dei quali hanno un bisogno famelico, essenziale per la loro stessa esistenza.
Non importa chi gli dice cosa, i narcisisti, esattamente come il Narciso da cui prendono il nome, intimamente disdegnano chi li lusinga, l’unica cosa che davvero importa loro è la lusinga stessa.
Giunti alla fine di questo identikit, suggerirei a tutti noi di abbandonare il timore di incontrare un narcisista. I narcisisti corrispondono al 100% della popolazione. La nostra società è costruita sul culto esclusivo e sterile di sé. Non potete che incontrare un narcisista o una narcisista perché lo siamo tutti. Magari, unica accortezza, evitiamo specchi d’acqua.

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Elogio del fare schifo

10/17/2022

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T’insegneranno a non splendere. E tu invece splendi.
Quante volte abbiamo letto questa citazione di Pasolini, eh?
A parte che in origine, voleva dire tutt’altra cosa ma, in effetti, l’idea di essere opachi e poi, con una passata di vetril sprituale, splendere come non hai mai splenduto, splendito…spleso.
Sembra una bella idea.
Ma vogliamo rivendicare il sacrosanto diritto a fare schifo ogni tanto?
Ma potrò, quando sono in casa e non mi vede nessuno stravaccarmi sul divano con la maglietta sporca? Ma potrò non essere capace di fare qualcosa senza per questo ricorrere ad un life coach? Ma potrò ogni tanto essere triste senza che qualcuno mi spieghi che se penso male, poi divento male e se divento male poi muoio e la mia vita non ha mai avuto senso?
Potrò non sapere il participio passato di splendere?
Rivendichiamo il diritto di essere mediocri!
Anche perché, se diventiamo tutti speciali, poi essere speciale diventa essere mediocre e siamo da capo.
Lasciamo gli speciali ad essere speciali che devono essere una minoranza sennò speciale non vuole più dire un cazzo di niente e noi mediocri, la stragrande maggioranza, ci lasciamo in pace e ci concediamo il sublime diritto, ogni tanto, di fare schifo.

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Katharine Gun

10/15/2022

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Katharine Teresa Harwood è orgogliosa di lavorare al GCHQ, in inglese sta per Government Communications Headquarters, Quartier generale del governo per le comunicazioni.
Tutti i giorni va nel suo ufficio a Celtenham, si versa una bella tazza di caffè, si lega i capelli, si infila le cuffie e ascolta.
È arrivata lì rispondendo ad un annuncio, cercavano una traduttrice dal mandarino all’inglese. Neanche sapeva che si trattava dell’intelligence.
Ascolta conversazioni e, se c’è qualcosa che non va, lo comunica per proteggere i cittadini del Regno Unito. Per evitare orrori, insomma.
Ha una certa dimestichezza con i popoli che orrori hanno subito, Katharine, suo marito, Yasar Gun è curdo, lei ha insegnato inglese a Hiroshima.
Il 31 gennaio del 2003 legge una mail inviata da Frank Koza della national security agency. All’interno di quella mail c’è la richiesta di partecipare ad un’operazione di spionaggio dell’amministrazione Bush, contro sei paesi del consiglio di sicurezza delle nazioni unite: angola, bulgaria, camerun, cile, guinea e pakistan. L’obiettivo è raccogliere informazioni per poterli ricattare affinché votino a favore dell’invasione dell’Iraq.
Katherine non ci dorme, si tormenta, passa giorni infernali. Alla fine decide di far trapelare quella mail.
L’Observer la pubblica.
La Gran Bretagna, insieme agli Stati Uniti stanno muovendosi per una guerra illegale a Saddam Hussein.
È lei stessa a confessare di aver stampato e portato il documento fuori dall’edificio. Dopo una notte in custodia, passa quasi un anno prima che si decida se istruire il processo ed infine nel novembre di quello stesso anno viene incriminata ma l’udienza dura meno di 30 minuti perché la procura della Corona, ritira le accuse.
L’improvviso dietro front è dovuto alla linea di difesa scelta da Katherine che, dichiarandosi innocente, giustificando la propria condotta con il principio di necessità, costringerebbe l’accusa a fornire i documenti che dimostrerebbero che la guerra in Iraq è stata una guerra illegale e porrebbe il Regno Unito e, di conseguenza, gli Stati Uniti, nella scomoda condizione di essere accusati di crimini di guerra.
Dopo un anno infernale, fatto di intimidazioni, di un tentativo di espulsione del marito, di diffamazioni e pressioni, il procedimento a carico di Katherine sfuma, come se non fosse mai esistito, e ironicamente, seppur giustamente, nel 2004 le viene anche consegnato il Premio Sam Adams, un riconoscimento consegnato ai membri dell’Intelligence che si sono distinti per integrità ed etica.
Nel frattempo la guerra in Iraq si è fatta, le armi di distruzione di massa non esistevano come non esistono più, si stima, da 151.000 a un milione di iracheni uccisi dalla guerra, insieme a 4600 morti inglesi e americani.
Il numero dei feriti è incalcolabile. 
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